da William Shakespeare
di Socìetas Raffaello Sanzio
regia di Romeo Castellucci
visto al CRT Teatro dell’Arte di Milano_15-20 marzo 2016

Omaggi, rassegne, incontri, convegni. A Milano tutto è pronto per le celebrazioni dei primi quattrocento anni di Shakespeare. A movimentare i festeggiamenti ci ha pensato la Socìetas Raffaello Sanzio, con il suo Giulio Cesare. Pezzi Staccati, ri-composizione di uno spettacolo storico della compagnia, destinata, ça va sans dire, a scuotere anche i più navigati tra gli spettatori.

La performance, in cui si alternano tre momenti della tragedia del bardo, è condensata in una dimensione sospesa, quella della Sala d’Onore della Triennale di Milano. Si comincia con il le parole del tribuno Marullo pronunciate da un personaggio che porta il nome di “ …vskji” in riferimento al maestro russo dell’arte attorale. Con uno scarto di significato l’indagine psicologica stanislavskiana si traduce in una ricerca che è sì interiore, ma puramente fisica. Attraverso una cannula endoscopica fatta passare dalle narici, l’attore arriva a inquadrare le corde vocali, le cui vibrazioni sono proiettate sul fondale per tutto il corso del suo intervento. Trovata la genesi anatomica della parola (teatralepoliticaquotidiana), questa non verrà più chiamata in causa in tutta la sua forza fonica nel corso dello spettacolo. Di soli rumori, prodotti dal frusciare delle vesti al movimento dell’attore, si compone infatti il secondo discorso della rivisitazione, “pronunciato” da un anziano Cesare. La toga purpurea che il dictator indossa, quella del trionfo romano, si fa presto tomba, mentre docile si piega all’attacco dei congiurati da lui stesso allattati. Il corpo, metaforicamente avviluppato nelle sue glorie terrene, viene trascinato a peso tra gli spettatori, che, per far passare la salma, si dividono a metà.

La ferita inferta al popolo dalla congiura non è puramente simbolica ma è anche quella fisica e reale attraverso la quale Marco Antonio, interpretato da Dalmazio Masini, attore laringectomizzato, pronuncia il famoso discorso sulla morte di Cesare, mostrando una tecnica fonatoria (non solo retorica) che utilizza muscoli altri per comunicare. Il discorso si conclude con la consacrazione di Marco Antonio a maestro dell’ars (ars retorica, ars politica, ars e basta?).

Castellucci lavora per sottrazione all’originale del 1997 per mettere a fuoco un messaggio che, in uno spazio e in un tempo ristretti, arriva diretto al pubblico. L’attenzione, insistita per tutto lo spettacolo, sulla parola in quanto prodotto fisico-meccanico (e non mentale), innesca nello spettatore un processo di straniamento a cui contribuisce una composizione scenica dall’estetica quasi surreale.

E se la tragedia shakespeariana – che per eccellenza gioca sull’ambiguità del linguaggio – potrebbe sembrare privata della sua ragion d’essere, così non è. Al contrario proprio nella contemplazione della fisiologia delle corde vocali o nell’afasia che in varie forme si manifesta nella seconda parte dello spettacolo, si trova il senso più profondo dell’operazione della Socìetas: una metafora, per così dire, anatomica che si presta a molteplici letture.

L’intento critico è in primo piano: la parola politica è manipolatrice, il linguaggio subdolo significa sempre altro da ciò che primariamente esprime o al massimo – questione molto attuale – non significa nulla.  Eppure quella di Castellucci è anche un’operazione che va oltre la parola: quest’ultima infatti esautorata del proprio potere sonoro, si combina in altre forme di espressione, altrettanto importanti agli occhi dell’autore cesenate. L’assenza di suoni parlati si rivela scelta necessaria per sostenere un’operazione che è tanto più delicata proprio nel mostrare la crudezza e la fragilità della condizione umana. A quest’ultima Castellucci  contrappone la maestosità e la potenza visiva di un cavallo nero sul quale, morto Cesare, viene dipinto in vernice bianca uno dei più antichi rebus della storia “Mene, Tekel, Peres” la condanna, anch’essa frammentata e malcerta, data da dio, per bocca del profeta Daniele, al regno del re Baldassàr.

Camilla Lietti