Sono pochissimi gli elementi concreti a cui appigliarsi mentre leggiamo Gli accovacciati (Die hockenden) di Miroslava Svolikova, giovane autrice viennese (classe 1986) vincitrice di diversi premi prestigiosi in Austria e Germania, e le cui opere sono state rappresentate nei principali circuiti di lingua tedesca e selezionate per la rassegna berlinese Autorentheatertage (Author Theatre Days) del 2017.
Il sospetto che Gli accovacciati sarà un testo laborioso da gestire nella solitudine della lettura ci viene già dalle prime righe, mentre passiamo in rassegna le scarne indicazioni che l’autrice fornisce sui personaggi presenti in scena:
da sinistra a destra:
uno di cui si parla
gli accovacciati – parecchi*
gli altri – parecchi*
uno del posto
*le parti in corsivo sono a più voci
In realtà queste poche parole contengono già tutto l’universo de Gli accovacciati: il fatto che ci sia un “posto”, in questo caso un indefinito paesello di provincia; “uno di cui si parla”, qualcuno che attira l’attenzione dei compaesani, perché è bello, desiderato dalle donne e invitato a bere all’osteria dagli uomini; e, infine, c’è chi commenta la situazione, “gli accovacciati” e “gli altri”.
Il tentativo di mantenere questa distinzione di voci mentre si legge frana quasi subito, dopo le prime pagine. La struttura del testo è costruita come una partitura musicale polifonica su tre colonne, una sequenza che non distingue nessun personaggio in particolare. Tutti rimangono anonimi, è il pensiero comunitario a parlare.
L’identità individuale è insignificante, impastata in quella collettiva e schiacciata dal grigiore provinciale, in una dimensione indistinguibile tra presente, passato (il futuro è qualcosa in cui si può solo sperare, ma non arriva mai) e tempo delle possibilità. Coloro che sono accovacciati in questa conca senza scampo discutono spesso tra loro di qualcosa che «sarebbe potuto perlomeno accadere».
Con questa drammaturgia Miroslava Svolikova ha vinto il Retzhof Drama Prize, un riconoscimento in denaro dedicato in Austria a drammaturghi e drammaturghe giovani ed esordienti. Il premio, a partire dal 2015, comprende anche la messa in scena del testo premiato al celebre Burgtheater di Vienna, dove Gli accovacciati ha debutatto in prima assoluta nel 2016 per la regia di Alia Luque. All’interno de Gli Accovacciati possiamo rintracciare l’educazione filosofica della Svolikova – che ha studiato filosofia tra Vienna e Parigi per poi frequentare l’Accademia di Belle Arti viennese e diplomarsi all’Università di Scrittura Scenica di Graz – nei ragionamenti speculativi di coloro che sono nella conca. Leggendo il testo, infatti, ci viene il dubbio che tutte le parole non siano mai pronunciate, ma rimangano allo stadio di pensiero inespresso.
Sono due gli elementi che ce lo suggeriscono: la struttura temporale, che man mano appare circolare più che lineare, e l’utilizzo di solo due tempi verbali, il presente e il condizionale. Di questi ultimi il primo è un presente eterno: filosofico e immutabile; mentre il condizionale assume una sfumatura di rimpianto per una speranza che, per l’ennesima volta, non si è realizzata. «Lui sarebbe potuto almeno essere qualcuno che avrebbe potuto dire qualcosa che poteva essere reale. che lui sarebbe potuto essere uno, che avrebbe potuto vedere qualcosa che fosse un fatto». Ne Gli Accovacciati la comunità del piccolo paese si parla addosso in una paralisi perenne e le parole rotolano a terra e sedimentano in un limo melmoso che forma il suolo su cui tutti poggiano. «qui si è parlato già tanto. qui si è già detto molto che poi è finito per terra. poi, qualcuno l’ha pestato e ne ha fatto terra battuta. su un terreno così si sta in piedi come si può, sempre. per quanto è possibile».
A un certo punto, mentre leggiamo, cominciamo a desiderare che accada qualcosa: il testo diventa insopportabile. “Quello di cui si parla” è la persona nella quale “gli altri” e “gli accovacciati” (e noi stessi a un certo punto) ripongono le loro speranze. Lui sembra potersi muovere, cambiare. Tutti lo osservano entrare nell’osteria della piazza del paese. Ma l’unico gesto significativo che compie è quello di portarsi il bicchiere di grappa alle labbra, ancora e ancora, annullandosi nell’alcol, nell’unico luogo di socialità del piccolo villaggio. Tutto è un pantano e tutto si ripete sempre uguale: l’osteria prende fuoco e poi viene ricostruita tale e quale, il bus, che si dice porti fuori dalla conca, in realtà fa solo il giro in tondo del paese e ritorna al punto di partenza. Coloro che sono accovacciati sono condannati a rimanere incastrati nella conca, come esplicita l’autrice in un passaggio: «già da bambini stanno tutti con il dito nella terra. già da bambini indicano col dito solo la terra, perché è questa la loro direzione, perché è l’unica direzione». I continui riferimenti alla terra che l’autrice dissemina nel testo, possono suggerire anche un’altra interpretazione: alcuni di coloro che parlano sono ormai sepolti da tempo, magari sotto le ceneri dell’osteria andata a fuoco. Se non esiste passato, né futuro e tutto è sempre uguale, allora significa che non c’è nemmeno distinzione tra vivi e morti.
Da Gli accovacciati:
obbligatorio, obbligatorio, qui
in paese, ci si ferma, proprio lì,
dove uno si trova già, perché si
pensa, non è poi così male qui,
eppoi comunque non si riesce ad
andare via da qui. ci si ferma in
questo buco, in questa pozzanghera,
in questa fessura, si sta incastrati
con le gambe, con tutte e due le
gambe, ci si sta agganciati con
tutti e due i piedi, si sta dentro
praticamente come in una fossa,
che è già stata scavata, che ti è già
stata preparata, ce n’è una pronta
per tutti quanti qui, ci si sta
dentro e tutto è già pronto da
ci si occupa di tutto qui, non
bisogna fare nulla, basta restare
lì dove comunque uno si trova già
ed essere quello che comunque si
è già e che si è sempre stato, e
non muoversi da lì, in nessun
caso, perché si sta sempre nel
posto giusto lì dove si è, perché
si sta comunque sempre nel
posto giusto e ogni passo più in là
sarebbe in fondo e comunque un
passo falso, perché alla fine ogni
passo va troppo oltre, o no.
Gli accovacciati è un testo concavo, una cavità ideale per un lavoro di regia che può far risuonare le parole al suo interno, trasformandole in una messa in scena. Come rendere il Nulla sul palcoscenico? Come trasmettere l’immobilità claustrofobica della provincia attraverso dei corpi che performano? Quante persone ci sono accovacciate lì, nella conca? L’autrice ci dice che sono “parecchi”, tanti quanti sono “gli altri”. Si potrebbe pensare a una struttura corale, ma anche, al contrario, a un lungo delirio di una sola voce. Per restituire il senso di immobilità si potrebbe limitare le possibilità espressive dei performer, restringendo fisicamente lo spazio scenico: nessuna entrata, nessuna uscita di scena, tutti nella conca del palcoscenico.
Miroslava Svolikova consegna un materiale di lavoro che interroga la regia sotto diversi punti di vista, che la stimola e la sfida. Gli accovacciati è un punto di partenza, come lei stessa dichiara: «Come drammaturga, mi piace pensare che sto gettando le basi per lavori futuri e, nella migliore delle ipotesi, per una varietà di possibili soluzioni».
Carlotta Pansa
foto di copertina: © Reinhard Maximilian Werner
GLOSSARIO AUSTRIACO
Speranza [Hoffnung]
La speranza, secondo la definizione che ne dà il vocabolario Treccani, è «un sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera». La speranza è un seme, si nutre, si accarezza, si culla. La si può infondere, può sorreggere, ma anche svanire, crollare, essere abbandonata o perduta. La speranza non può essere descritta con aggettivi “forti”, perché è un barlume flebile, un briciolo, un’ombra. La speranza è calpestata e sepolta sotto il fango della conca. Se guardiamo abbastanza a lungo dentro la conca, sarà la conca a guardare noi.
Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente con una mail a [email protected]