Sul crinale di un dolore immenso, che innesca tutto ma che volutamente non invade, Milo Rau ha costruito Grief & Beauty, presentato quest’ottobre in Italia nelle tre tappe di Roma, Prato e Genova. A guidare la regia, questa volta, sembra esserci un tentativo paradossale: inseguire il dramma per fuggirlo; sfiorarlo continuamente e poi però aggirarlo. «No drama», dicono più volte gli attori dal palco. E infatti, al contrario dei lavori più recenti del regista e del loro procedere per via di scavo, qui tutto accade per sovrapposizione: se Familie sviscerava dall’interno la storia tragica del suicidio di una famiglia, se La Reprise moltiplicava i punti di vista esterni ma su un singolo fatto spietato, Grief & Beauty procede invece per accumulo.

Certo, c’è la storia che ci aspettavamo: quella chiarita subito, fin dalla prima battuta del copione. Per mettere fine a una malattia terminale, Johanna B. ha scelto di morire. Non solo: ha accettato che la sua vicenda fosse narrata in uno spettacolo teatrale; che una troupe andasse a casa sua e che quell’incontro venisse poi trasmesso su uno schermo issato a sovrastare una scenografia; che il suo volto desse il benvenuto al pubblico in sala; infine, che i suoi ultimi secondi di vita venissero ripresi: che noi spettatori misurassimo il tempo di una morte contando gli istanti tra i nostri respiri.

foto: Michiel Devijver

Eppure, questa storia non è dominante. Con una scelta imprevista, Grief & Beauty moltiplica le trame: i quattro attori sul palco non re-inscenano le vicende di Johanna, ma ne scrivono di nuove. Un bagno, una camera da letto e una cucina – ordinati ma sovrabbondanti – sono i luoghi di un’altra vita in gran parte già trascorsa, la casa dove un uomo sceglierà di morire e dove un medico, quando sarà il momento, eseguirà un’iniezione letale. A questo racconto senza nomi, però, si sovrappongono anche le biografie degli attori in scena: lungo i tre capitoli di Grief & Beauty, mentre Johanna dall’alto dello schermo appare e scompare, Anne Deylgat, Arne De Tremerie, Princess Isatu Hassan Bangura e Staf Smans prendono a turno la parola per dire di sé. Tra dolori ed entusiasmi, il passato torna a mente per tracce – per canzoni – e in queste trame, continuamente interrotte e riprese, il teatro fa breccia e diventa un’occupazione: per qualcuno una professione, per qualcun altro una vocazione ritardataria.

Intorno a Johanna, dunque, Rau sceglie di costruire un coro mancato: in una drammaturgia scritta per addizioni di voci singole, tra i ricordi non c’è accordo se non quello dato dall’eco – dalla vita e dal suo alternarsi di Grief e di Beauty, secondo una suddivisione non necessariamente equa, anzi quasi sempre meschina nei modi e nei tempi. La cifra del regista è quella che conosciamo: quattro interpreti e due lingue; uno schermo cinematografico e una camera in scena; le luci (a cura di Dennis Diels) puntate a scaldare i volti nel buio; e ancora, in ordine sparso: i sottotitoli, le pieghe del corpo nudo, un teatro che vuole parlare di sé (il testo è di Carmen Hornbostel). E tuttavia, pur assecondando lo schema cui ci ha abituati, Rau devia dalla strada solita con un lavoro centrifugo rispetto alla vicenda che lo aveva mosso. Funziona: nella misura in cui, così facendo, rifugge non solo il dramma ma anche la pietà; e nella misura in cui una scelta che ancora non è un diritto – l’eutanasia – non viene raccontata come eccezionale ma inserita nella normalità.

foto: Michiel Devijver

Rimane la sensazione di un’esondazione evitata: Grief & Beauty sembra scritto per arginare ricorsivamente tutte le piene che avrebbe potuto provocare. Lo dicono, per esempio, i suoi tempi: non c’è una cadenza serrata, né un finale da togliere il fiato. Senza accelerazioni o rallentamenti, il tempo è quello scandito dal pendolo (che fu di Johanna, quando dallo scorcio dello schermo oscillava nel suo salotto, e che ora è qui sul palco): è il tempo vero che non ha paura dei vuoti – del caffè o della minestra che si scaldano, dell’aspirapolvere da passare tra i mobili. È quest’adesione totale e voluta all’orologio della vita a far sì che Grief & Beauty abbia il ritmo di tutti i giorni, quello sincopato di quando le cose accadono tutte insieme e di quando poi non accadono più – e questo determina forse uno scarto tra la velocità dei pieni e la staticità del dolore, della noia o della solitudine.

Lo stesso modo di avvicinare Johanna racconta bene l’equilibrismo in regia. Di lei ci viene detto poco: alcuni dati biografici – due matrimoni, quattro figli, una vita in Olanda – ma per più di due terzi dello spettacolo non ne sentiamo nemmeno la voce, silenziata nei video e sostituita dal violoncello di Clémence Clarysse in scena. L’inaspettato arriva negli ultimi istanti della vita di Johanna, quando diventiamo pubblico di un monologo imbeccato dalla morte. È la scelta di darle voce ora – forse ancor più che il riprenderne la fine – a spiazzare chi già sapeva che avrebbe visto una donna morire: è qui, nello spostare fin quasi alla caduta il bilico tra la nascita del personaggio e la morte della persona, che Grief & Beauty muove (smuove, scuote, forse a qualcuno irrita) di più.

foto: Michiel Devijver

Poi, però, tutto rientra: no drama. C’è ancora spazio per nuovi pezzi di vita e per le note di Purcell (altra cifra registica); per Princess che ricorda il profumo dei cibi in Sierra Leone o per Staf che danza ripensando al primo ballo con la moglie. La coralità con cui Rau sceglie di stemperare l’individuale nel collettivo, però, è fatta da voci non solo umane: sono tre gli intermezzi in cui l’uomo retrocede e lascia spazio ai canti degli uccelli e agli ululati dei lupi, rievocati da Anne, o alle stelle raccontate da Arne. Sono voci altre di gioia e di lamento, storie altre di nascite e di collisioni. 

Il rischio era lo scandalo. Del resto, il maestro è ancora una volta Pasolini, in questa versione privata di quella che fu la Trilogia della vita: cinquant’anni dopo, il posto che era del sesso ora se lo è preso la morte. Qualcuno ha discusso sul possibile oltraggio – sul limite superato. Eppure, Grief & Beauty è un chirurgico allineamento di parti in cui lo scandalo non c’è. La conclamata adesione al reale (e al molteplice), di cui Rau negli ultimi dieci anni è stato maestro, qui è invece la chiave con cui lo spettacolo sceglie di diminuirsi in potenza per prendere, nel dolore, le parti della delicatezza: per puntare lo sguardo non sulla morte del singolo ma su come tutti noi, tra grief e beauty, le andiamo ogni giorno un po’ più incontro. Giusto un po’: come chiede Stef ad Arne nel supplicargli di re-inscenare la morte del Piccolo Principe, sua prima parte da attore quando ancora era bambino, «potresti morire, giusto un po’?».

Virginia Magnaghi


foto di copertina: Michiel Devijver

GRIEF & BEAUTY
regia Milo Rau
testo Milo Rau & Ensemble
con Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans, Johanna B. (in video)
drammaturgia Carmen Hornbostel
coach e collaboratore alla drammaturgia Peter Seynaeve
scene e costumi Barbara Vandendriessche
composizione Elia Rediger
musica dal vivo Clémence Clarysse
camera & video design Moritz Von Dungern
luci Dennis Diels
produzione NTGent
in coproduzione con Tandem Scène Nationale Arras – Douai, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt, Romaeuropa Festival, Teatro Nazionale di Genova