di ricci/forte
visto alla Biennale di Venezia, Teatro Fondamenta nuove _ 15 ottobre 2011
Niente di nuovo sotto il sole di ricci/forte. Invitati alla Biennale di teatro a presentare un loro lavoro nella sezione-vetrina Young italian brunch, scelti dallo stesso direttore artistico Alex Rigola su suggerimento di Enrico Bettinello, direttore del Teatro Fondamenta nuove (avamposto del teatro giovane e di ricerca a Venezia), la coppia di drammaturghi, oramai noti e amati in tutta Italia, ha scelto il suo ultimo spettacolo, Grimmless.
Per chi li segue dagli esordi, da quel Troia’s discount che tanto aveva colpito, per chi li ha visti sbarcare nella minuscola sala del Pim off a Milano, quando questa ancora si trovava in via Tertulliano, per chi li ha applauditi alla consegna dei primi, meritati premi, questo spettacolo era destinato a trasformarsi in una prova, nell’ostacolo da superare, nel passo decisivo verso la maturità espressiva. Una maturità fatta di scrittura e di contenuto, più che di forza di immagini o di suggestioni. Quelle non sono mai mancate e anche in questo caso non ne rimaniamo a digiuno. Con Grimmless si doveva arrivare a un punto di svolta. Era il momento ideale, questo, per prendere per mano lo spettatore e rassicurarlo: il viaggio insieme a noi continua, si fa più stimolante e interessante. In altre parole si evolve, come evolve la vita e come evolvono le ispirazioni, i progetti e le modalità espressive di qualsiasi artista.
Ebbene, il viaggio oggi sembra a un punto morto. Lo spettacolo visto a Venezia è drammaticamente identico a Pinter’s anatomy, che era a sua volta troppo simile a Macadamia nut brittle, che inesorabilmente già riprendeva tutte le intuizioni, le trovate sceniche, le stigmati di un linguaggio incisivo ma frammentato già alla sua nascita. Quella di ricci/forte è sempre stata una grammatica dura, per stomaci forti, fatta di lampi e guizzi più che di regole e logiche, basata su immagini che erano a loro volta metafore di stati d’animo, stati di eccitazione, stati di abbandono.
Era da quella scrittura che si doveva ripartire. Non per smontare quello che di buono si era fatto ma per arricchirlo, renderlo più complesso, più profondo. Il teatro è anche parola; ha bisogno di parole. La provocazione, il rischio, l’affondo, lo stare sopra le righe fanno parte del gioco, certo. Ma da quelli che sono considerati gli enfantes terribles della drammaturgia italiana ci si aspetta di più.
Quello che si voleva vedere in scena non era il diario di un adolescente vagamernte turbato (come sono tutti gli adolescenti). Semmai era qualcosa che mostrasse il contrario: come quello stesso ragazzo che in Macadamia urlava il suo terrore del mondo e dei rapporti umani, a quel “fuori” potesse finalmente approcciarsi, per smettere di crogiolarcisi dentro. Il mondo preconfezionato fatto di giornate su facebook, lampade abbronzanti e gite a Leroy merlin è già roba vecchia. Le “strisce di controsenso”, il “condominio di carne”, i “bossoli di una mitragliatrice di silenzio”, la panna montata in faccia, le barbie, la colonna sonora sparata a tutto volume per troppe volte senza troppa convinzione, i monologhi disperati, piangenti, solitari dei personaggi che avanzano sul proscenio, tutti descrivono ma non analizzano, colpiscono ma non lasciano ferite aperte da leccare per poter, alla fine, guarire.
A spettacolo chiuso applausi convinti da una schiera di autentici fan che, non vedendo l’ora di assistere a un lavoro dei loro idoli, ha affollato il piccolo e affascinante teatro off veneziano all’ora di pranzo, testimoniando come questi ragazzi siano stati in grado di aprire un varco, come abbiano intercettato un percorso da compiere e aperto una strada autentica. La percorrano, ora, questa strada. Con coraggio e rimettendosi in gioco. È il “loro” pubblico, per primo, ad aspettarselo.
Francesca Gambarini