Miriam Gaudio _ redattrice di A critic mess!
Riccardo Olivier _ coreografo e danzatore di Grip
Alex McCabe _ coreografo e danzatore di Grip

MIRIAM. Come è nato il progetto? Come l’avete costruito?

RICCARDO. Grip inizia con la volontà mia e di Alex di fare un lavoro insieme su noi stessi, in particolare sulla nostra differenza come persone. La cosa più evidente e significativa è che lui ha un ritmo lento e talvolta incantato, mentre io ho una voracità nei confronti del presente, una fretta incredibile. È da qui che viene l’idea del titolo. Nel gruppo di lavoro abbiamo coinvolto fin da subito Maddalena Oriani [set/costume designer ndr] e Alberto Sansone [videoartista ndr], ma il progetto si è concretizzato solo quando abbiamo ottenuto una prima residenza in un’isola scozzese sulla costa occidentale, dove andammo tutti e quattro a lavorare sul concept e sul video, che è stato girato a Tiree. Sapevamo che era rischioso andare su quest’isola nel periodo invernale (era novembre) – infatti a causa di una tempesta i voli di ritorno di Maddalena e Alberto furono rinviati di qualche giorno. Ma abbiamo rischiato comunque perché, a seguire, io e Alex saremmo andati ad Aberdeen, sull’altra costa scozzese, per una residenza a CityMooves con una restituzione che aveva già la forma che ha ora Grip: l’ingresso, il violino, il video, il racconto delle motociclette, l’acrobalance, la scultura finale. Quest’ultima idea ci venne perché eravamo nel periodo di Natale e pensammo di fare una scultura che ricordasse l’albero, e così è nata anche l’idea delle lucine presenti nello spettacolo. In seguito abbiamo avuto altre due residenze: una in Italia, a spazio DanzArte per C.L.A.P.Spettacolodalvivo, e l’altra al famoso DanceBase di Edimburgo. Ma la versione finale dello spettacolo è arrivata grazie alle tre repliche con Zona K. Quest’ultima residenza ci ha permesso anche di riconnetterci con Maddalena e Alberto, cosa che secondo me ha dato un’ulteriore quadratura al lavoro.

M. In che cosa?

ALEX. Fin dalla prima fase del progetto Alberto ha fatto il video, mentre Maddalena si è occupata dell’allestimento. Incontrarli di nuovo ci ha costretti a mettere dei punti, dei paletti, a stabilire il tutto in modo più chiaro e definitivo.

M. Nel video avete usato molte immagini che si collegano al tema del viaggio. Gli scarponi, la macchina, le goccioline che si allungano sul finestrino quando il veicolo è in movimento, il rumore dei motori. Mi ha fatto pensare a un’idea di frenesia, di rincorsa quotidiana, sia fisica sia mentale, come i pensieri che si rincorrono su tutto quello che uno ha da fare.

R. C’è questo e ci sono anche altri riferimenti. C’è un parallelismo col correre a cavallo di Samarcanda che diventa la motocicletta, c’è un’esperienza personale legata alla morte, e soprattutto c’è l’idea della metafora del viaggio e di quanto la famosa frase (un po’ zen) per cui “l’importante è il percorso” oggi sia spesso sostituita da “l’importante è la velocità, è darci forte”. Siamo arrivati a queste metafore con un confronto artistico quotidiano tra noi due, perché se io sono la velocità e Alex è totalmente il contrario.

M. Magari è un’inferenza, ma non c’è un riferimento a Chagall? Mi è venuto in mente questo artista soprattutto per le posizioni di acrobalance in cui c’era sempre uno ancorato a terra e l’altro sollevato di peso, ma anche per l’utilizzo del violino.

A. Coscientemente non è stato cercato questo riferimento a Chagall, ma, adesso che me lo dici, sicuramente questa immagine mi resterà! Il mondo immaginario di Chagall mi parla in modo particolare perché mostra qualcosa che ho vissuto.

R. Io ho molto meno rapporto con Chagall rispetto ad Alex, ma anche a me dà un forte senso di sospensione di tempo, una ‘bolla’, per così dire. Se ci penso, il grip è un concetto che è legato a tutto questo: è l’aderenza, però ha anche una definizione automobilistica. Le ruote si misurano a grip: quelle che hanno più grip mantengono aderenza al suolo, e questo permette al veicolo di andare più veloce. Ho fatto un incidente stradale una volta, a 40km all’ora con la neve. Ho semplicemente perso aderenza: era neve fresca, mi ha sorpreso: la sensazione è quasi un arrendersi, in quel momento non hai più niente da fare. Ho buttato una macchina, ma è stata un’esperienza interessantissima perché il tempo di slittamento fino alla collisione è stato lunghissimo, cioè la macchina ha fatto un lungo tragitto sospesa. Ho pronunciato “muoio”, ma ho avuto tempo di ragionare questa collisione, pensarla, dirla e vederla arrivare. Non è stato nulla di grave, ma mi ha fatto pensare che troppo spesso l’uomo tira, tira, tira e poi all’improvviso perde l’aderenza e c’è quel momento, che può durare tanto o poco, di sospensione. C’è chi ripensa alla propria vita, c’è chi si dice: “mi bastava andare 10 km/h in meno”.

M. Ed è quello che rappresentavi con la mano a forma di omino che correva, prendeva il balzo per poi cadere?

R. Sì, diciamo che poi tutto questo discorso è diventato metaforico.

M. Come mai avete sentito la necessità di fare entrare e di far partecipare il pubblico a uno spettacolo così intimo?

R. Due cose. La prima è che io non sono da solo nel mio ‘correre’ e lui non è da solo nel suo ‘non correre’. La seconda è che Grip è simile a quando torni a casa pieno di ansie che non riesci a spiegarti, entri in salotto, trovi i tuoi coinquilini e finisci a chiacchierare per un’ora. Magari non parli neanche di quello che ti stressa, ma crei quella bolla di bellezza e tranquillità e pace a cui ti aggrappi e dici: “Sai che c’è? Questi problemi sono relativi”.

M. Quindi l’idea è di portare il pubblico in una condizione tale da ricreare questa dimensione famigliare che descrivi…

R. Esatto, è un ricreare questa ‘bolla di chiacchiera’, non quella tra fratello e sorella o tra fidanzati, dove la relazione è a una sola mandata, ma a un livello di estraneità in cui è possibile un reale incontro, perché totalmente disinteressato e gratuito. In quel momento anche le poche barriere che ci sono si buttano giù, si mettono via i ferri di battaglia della giornata e si dice: “Prendiamoci questo momento insieme”. Detto questo, noi non vogliamo risolvere problemi: Grip non è psicanalisi, ma è creare, senza dare un valore politico alla parola, cercare quella resistenza che dà un po’ di bellezza. Tra i feedback che ho ricevuto, mi è stato detto che è mancato alla performance un momento di impatto scenico, ma secondo me l’obiettivo è proprio il contrario. È per questo che nell’ultima versione di Grip abbiamo semplificato molti elementi: nella ‘bolla’ non c’è bisogno del colpo di scena o del grande momento in cui viene rivelata la verità che ti svela il mondo.

M. Per quanto riguarda la spettacolarità, ho fatto fatica a capire il tono della performance. C’era come un gap tra momenti di puro spettacolo e momenti di contatto con il pubblico. Mi viene in mente, ad esempio, la fase preliminare all’ingresso nel salotto, quando Alex ci ha detto di pensare a tutti i nostri impegni e stress quotidiani e di “respirare”… speravo fosse una cosa ironica!

A. Ma era ironica! E sappi che per un britannico è un grande complimento quando gli si dice di non aver capito se sia ironico o no [ridono]. Sicuramente io mi sto prendendo in giro in quel momento. L’elemento sincero non è il fatto di dimenticare lo stress ma l’idea di svegliare col pensiero delle sensazioni, di catturare l’attenzione; è una preparazione drammaturgica, niente di spirituale, una preparazione anche fisica. Infatti prima chiedo al pubblico di riscaldare le mani, di appoggiarle alla parete, di aggrapparsi con le dita, di riprodurre un impatto. Quando dico invece di respirare e lasciar scivolare via tutte le cose da fare in realtà è per ricordarvi di tutte le cose cha avete da fare; è un momento molto autoironico, ma forse è stato un po’ troppo sottile.

M. Anche sulla parte finale ho avuto perplessità. Sul cartellone delle “cose da fare” che il pubblico ha riempito di scritte, ho incluso tutte cose a cui tengo, perché anche gli impegni stressanti fanno parte della mia vita; ricordo, ad esempio, di aver scritto “curare la nonna”. Per questo il momento dello strappo del cartellone è stato un brutto colpo, e mi sono chiesta se l’unico modo di curarci dallo stress sia l’eliminazione, il rifiuto.

A. È una questione di età! [ridono]

R. Io farei un passettino indietro. Quello dello stracciare, anche se è una delle interpretazioni di quell’azione, non è l’unica risposta, e non è neanche la nostra risposta. Per esempio ci sono alcuni rituali in cui tu per esprimere un desiderio lo scrivi su un bigliettino che viene bruciato; questo non fa scomparire il desiderio, anzi lo fa avverare! Quindi non è una brutalità nei confronti di quello che hai scritto, ma è semplicemente un’azione che può essere vox media. Tutto dipende dal significato che dai a quel gesto, dall’energia che metti nel compierlo. E poi, in realtà, il cartellone viene preso in mano da tutti, ed è il pubblico che decide di strapparlo e, anche se sappiamo che l’azione porta naturalmente lì, c’è comunque una scelta.

A. Io ho avuto una sensazione molto simile a Miriam, questa volta. Avevo scritto “chiamare la mamma” e dopo la distruzione del cartellone mi è rimasto proprio quel pezzettino in mano, e mi è sembrato che ci fosse una poeticità in questo. Cosa devo fare prima che sia troppo tardi? Se distruggo tutto cosa davvero rimane?

M. A un certo punto della performance prendete la parola e raccontate esperienze sul tema di lasciare la propria casa. Sono le vostre storie personali? Mi ha interessato l’emergere, in tutta lo spettacolo, di due tensioni opposte entrambe vere e fondate: una che ci spinge fuori e una che ci spinge a stare. In questa situazione si rimane comunque insoddisfatti e irrisolti.

A. Nel mondo immaginario dello spettacolo abbiamo sentito questa voglia di mettere una luce sulla divergenza tra vita di campagna e vita di città, che è tradizionale ma per noi è anche molto legata ai giorni nostri. Da una parte c’è il prendere il volo e abbandonare il nido, dall’altra il rimanere nella casa dove sei cresciuto. È per questo che lo spazio che abbiamo scelto per la performance è una casa privata… tra l’altro, l’appartamento di Riccardo [ridono]. C’è una tematica del dentro e del fuori, della casa e della città, e il modo più adatto per sollevare questo tema e metterlo in scena ci è sembrato il raccontare da dove veniamo.

R. A un certo punto abbiamo pensato di togliere il testo ma poi abbiamo deciso di tenerlo perché ci serviva quella ricchezza: sia Alex che racconta di andare a Mosca sia io che abbandono la mia bellissima campagna per andare a Milano. Quei due piccoli racconti lasciano nello spettatore dei semi semplici, ma che hanno moltissima vita. Questa è la prima funzione del testo: non viene proposta una soluzione, le nostre vite rimangono irrisolte e insoddisfatte.

A. La soddisfazione è ad esempio in momenti come questa intervista/chiacchierata. Siamo qui a condividere qualcosa, in questa casa, a bere un aperitivo, a fare un “rituale sociale”. È già qualcosa, non è la risposta, ma è qualcosa che è dentro lo spettacolo. Forse non c’è una risposta alla domanda che ti è venuta in mente, ma c’è la domanda: questo è il momento di sospensione che Grip voleva esattamente ricreare.

a cura di Miriam Gaudio

Grip
di e con Riccardo Olivier e Alex McCabe
visto il 6 ottobre 2017_Case private / ZonaK Focus Urban