Durante il primo fine settimana del festival Giardino delle Esperidi ha preso avvio un percorso di ricerca che unisce intorno a uno stesso tavolo Campsirago Residenza, Altre Velocità e Stratagemmi-Prospettive Teatrali, e che avrà come oggetto il teatro nel paesaggio, e il ruolo dello spettatore in questi processi.

Giovedì 21 giugno, a Olgiate Molgora, è stato organizzato un primo tavolo di lavoro tra operatori, artisti, studiosi che si occupano di questi temi: la prima tappa per la creazione di un possibile vocabolario condiviso. Le testimonianze raccolte, nei prossimi mesi, si trasformeranno in veri e propri materiali di studio e di ricerca. Stratagemmi e Altre Velocità hanno osservato, preso appunti, ascoltato. Cominciamo a condividere alcune delle riflessioni emerse.

Attraversamenti, testimonianze, archetipi

Dieci minuti sono pochi per raccontare il lavoro di anni, e per sintetizzare riflessioni intorno a temi complessi. Questo è stato, tuttavia, il tempo concesso ai relatori per presentarsi, e per porre all’attenzione degli altri ascoltatori uno o più casi di studio e alcune questioni aperte. Spesso allora accade che la necessità di selezionare faccia emergere l’essenziale e non è un caso che i “testimoni” abbiano articolato le diverse esperienze intorno ad alcuni concetti chiave. A ricorrere, in quasi tutte le relazioni, è il termine “attraversamento”: un rapporto fluido con lo spazio, capace di mutare lo sguardo di chi compie il viaggio e, allo stesso tempo, la fisionomia del paesaggio stesso. Ascolto, disponibilità a cambiare, possibilità della scoperta: queste le parole d’ordine emerse. È da considerarsi superata, dunque, qualsiasi prospettiva tassonomica, dove un punto di vista privilegiato arriva a dominare sugli altri: l’idea stessa dell’attraversamento (così hanno rilevato, tra gli altri, Simonetta Dellomonaco e Alberto Momo) implica un’assenza di gerarchia nella visione.

Abbiamo sollecitato i relatori, nei giorni precedenti all’incontro, a riflettere sul ruolo assunto dallo spazio nella creazione della drammaturgia. La parola “racconto”, non a caso, è passata come un testimone dall’una all’altra relazione (in particolare si sono soffermati su questo aspetto Luigi D’Elia e Marco Di Stefano). Racconto come raccolta di ricordi, come manifestazione di una testimonianza legata al luogo, ai luoghi: ed ecco emergere, nei molti lavori citati, l’idea di “drammaturgie-mosaico”, capaci di includere al loro interno memorie, frammenti, tessere. Dare voce al paesaggio significa, necessariamente, rinunciare a un’autorialità dominante e impositiva, e lasciare che a parlare sia invece una polifonia di voci, espressione di un’intera comunità. I racconti dei luoghi non sono rassicuranti né offrono, come cartoline, prospettive di benessere o bellezza: piuttosto parlano di perdite, di crisi, di difficoltà e di contraddizioni. Ma proprio per questo generano scoperte e riscoperte: non è raro – quasi tutti i relatori concordano su questo punto – che l’esperienza teatrale contribuisca a cambiare di segno, o a caricare di un nuovo significato il rapporto negativo (o indifferente) dello spettatore con i suoi stessi territori.

Le relazioni tra teatro e paesaggio nascono per lo più in una dimensione strettamente locale, di questa si nutrono e in questa trovano una prima stringente urgenza. Eppure ritracciamo, in quasi tutte le esperienze, un respiro più ampio, che tende al globale e ha sete di universale. Il teatro ha, da sempre, la capacità di raccontare l’uomo in quanto uomo: non stupisce allora che un altro termine ricorrente nelle riflessioni dei più sia “archetipo”. Ed ecco che la costa tormentata di Taranto può raccontare il rapporto millenario tra uomo e mare (nel progetto Clessidra di Erika Grillo), o il mito di Arianna può risorgere in Brianza (Michele Losi), e il dramma greco può raccontare i paesaggi della Danimarca (Rita Julia Sebesyién). Il territorio, nelle sue particolarità, porta risonanze che lo trascendono e che lo connettono per analogia alle molte che lo hanno preceduto e alle infinite che seguiranno.

L’ampliamento della scena all’intero paesaggio circostante ha, naturalmente, conseguenze assai rilevanti sulla definizione stessa di attore e di spettatore (si vedano, poco oltre, le considerazioni di Lorenzo Donati): l’inadeguatezza del lessico di settore per raccontare esperienze che solo in parte sembrano riconducibili al “teatro” – nelle sue più limitanti definizioni da manuale – è del resto una delle ragioni che ci ha sollecitato a intraprendere questo percorso di ricerca. In questa sede è sufficiente rilevare il ricorso quasi ossessivo dei relatori all’aspetto della “percezione”(sensoriale, emozionale), che sembra per certi versi sopravanzare una fruizione di tipo intellettivo e razionale. Un’ultima parola (emersa nella relazione di Sara Vilardo) mi sembra qui particolarmente significativa, perché racconta e racchiudele esperienze di pubblico e performer: “incarnare”. Attore e spettatore sono dunque chiamati ad attraversare un territorio, a riscoprirlo, a coglierne le risonanze universali, e infine a portarlo su di sé. Ben oltre la fine dello spettacolo.

Maddalena Giovannelli

Se il teatro abitasse il paesaggio

In un saggio del 1984, Claudio Meldolesi sottolineava come “il non tradizionale” fosse da considerare come una questione storica del teatro italiano (Unificazione e politeismo, in Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro. Atti del convegno, Modena, 24 – 25 maggio 1986, Mucchi Editore, Modena). Non dunque un’eccezione, non qualcosa ‘fuori norma’, ma un modo di procedere ricorrente che innesca dinamiche di fuoriuscita e rientro, dove chi ha scartato dalla tradizione e dalle norme ha poi riportato tali percorsi nell’alveo istituzionale; ci sembra importante partire da qui per iniziare a stendere qualche appunto sul teatro che abita il paesaggio, evitando di cadere nell’errore di attribuire a questo territorio estetico il carattere di “eccezione”. Per parlarne ci rifacciamo a una scansione preliminare proposta da Michele Losi durante il tavolo di lavoro che ha aperto il Giardino delle Esperidi festival (di cui Losi è anche direttore artistico, presso la residenza Campsirago): Performance e Teatro nel paesaggio e ruolo dello spettatore nei processi di comunità in rapporto con i luoghi. Secondo Losi sono almeno tre le tipologie messe in campo se associamo il teatro al paesaggio: gli spettacoli nati altrove ma mostrati in particolari luoghi aperti; gli spettacoli il cui presupposto drammaturgico è specificamente legato a un luogo; le opere che esistono solo nel paesaggio, perché lo attraversano, lo abitano e forgiano la loro estetica solo dentro a tale specifica relazione. A partire da questa premessa vorremmo mettere a fuoco alcuni nodi per rimarcare perché il teatro nel paesaggio ci interessa particolarmente, e perché crediamo rappresenti una scommessa che vale assolutamente la pena giocare. Facendo nostra anche una seconda nota preliminare, espressa durante la giornata di lavoro da Stefano Beghi di Karakorum Teatro: il paesaggio è sempre la somma di cultura e territorio, è il prodotto dell’interazione fra luogo e comunità che lo abita.

La domanda che vorremmo porci è la seguente, anche per prossime cronache: come cambia il teatro, come si sposta, nella relazione con il paesaggio? Cosa perde e cosa guadagna, a livello di linguaggio? E come queste eventuali “perdite” o “guadagni” si rendono oggi necessari per fare in modo che il teatro riesca nuovamente a interagire con la società? Crediamo che, in assenza di un mutamento dei linguaggi, non abbia molto senso concentrarci su un così peculiare territorio estetico. Se invece da questa area di lavoro si produce uno spostamento allora divengono molteplici le potenzialità e le implicazioni per il teatro del presente e del futuro. Riportiamo qui un passo di Raimondo Guarino, sulla scia di quanto affermava Meldolesi:

“Le direzioni del dentro e del fuori, le esplosioni e i rifugi si alternano incessantemente negli spazi segnati dalle storie globali e locali. Nella nostra civiltà non esistono più i luoghi dello spettacolo se non come sedi dell’archeologia dello sguardo, circondate dalle correnti di eventi e messaggi. Uscire dai teatri è una decisione, spesso l’esito di un rifiuto, che può mobilitare movimenti di negazione e di ricerca rispetto ai modelli dominanti. Ma può essere il ripristino di una pratica che coinvolge gli usi dello spazio nella vita quotidiana, e la topografia generale” (Raimondo Guarino,Teatri luoghi città, Roma, Officina Edizioni, 2008)

Cosa potrebbe fare, dunque, il teatro se operasse nei luoghi?

Potrebbe lavorare per ricostruire pezzi e frammenti di memoria, provando a ritessere legami comunitari, raccogliendo le storie delle persone, ascoltando e rielaborando, restituendo attraverso segni artistici capaci di innervare il racconto comunitario di esperienze condivise, e non solo di rivendicazioni identitarie troppo spesso fittizie. Questa l’opinione di Marco Di Stefano, regista e organizzatore de La Confraternita del Chianti, rispetto al progetto che unisce racconto storico e memorie autobiografiche di Karakorum Teatro I sette martiri, ospitato da Manifattura K. Un ragionamento non distante è in atto anche a Chiatona, grazie al progetto Clessidra del Teatro Le Forche (lo ha narrato al tavolo Erika Grillo). Ma molti altri potrebbero essere gli esempi su scala nazionale nei quali il teatro permette, a chi lo frequenta, di raccontarsi, di scoprire la propria storia e dunque di “vedersi” con occhi nuovi. Pensiamo al teatro comunitario argentino, costruito precisamente sulle biografie degli abitanti dei quartieri, ma anche alle forme di “non-fiction” teatrale nordeuropee (Rimini Protokoll, Gob Squad ecc.), al teatro autobiografico che incontra cittadini e giovani in numerosi laboratori delle Ariette, al teatro Povero di Monticchiello, ai formati spettacolari della compagnia Kepler- 452 di Bologna. La lista potrebbe espandersi molto.

Se il teatro abitasse il paesaggio potrebbe inoltre lavorare sul concetto di “spaesamento”, qualcosa di geografico e concreto ma anche di filosofico e metaforico. A quale luogo apparteniamo, oggi, inseriti come siamo in flussi globali dominati da logiche ultracapitalistiche e ancorati tuttavia a territori spesso intrisi di paure e diffidenze? Seguendo la suggestione contenuta ne Le otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi, 2017), potremmo scoprire che la dimensione di chi abita tutta la vita gli stessi pochi metri quadrati, conoscendone ogni anfratto, non è poi così diversa da quella di chi esplora gli antipodi muovendosi fra le di catene di mezzo mondo. Possiamo tenere insieme gli opposti, e grazie al teatro rivedere i nostri luoghi con occhi diversi, dunque “rivederci”, guardare dentro alla nostra stessa alterità e diversità? Se ci riusciamo questo può forse essere preludio per andare incontro alla diversità, non solo intima ma esterna, vera e propria partenza per incontrare l’altro.

Infine se il teatro abitasse il paesaggio, certamente inviterebbe noi che lo attraversiamo a porci una domanda sul nostro “ruolo”. Forse scopriremmo, camminando, riflettendo, incontrando, fermandoci, osservando, dialogando che questa posizione o ruolo è sotto attacco, perché spettatori-che-consumano lo siamo tutti i giorni, a partire dai diversi schermi che possediamo. Ci hanno convinto che “spettatore” voglia dire starsene passivi a buttare giù quello che altri hanno progettato per noi. Ci hanno fatto credere che sia qualcuno a cui manca un prendere la parola e dire la propria a tutti i costi. Qui “spettatore” vuol dire tante azioni contenute in una parola sola: camminare, riflettere, incontrare, fermarsi, osservare. E poi testimoniare.

Lorenzo Donati

Campsirago Residenza e il Teatro nel paesaggio. Olgiate Molgora, 21 giugno 2018

I relatori: Matteo Fratangeli, Assessore alla Cultura del Comune di Olgiate Molgora; Luigi D’Elia, attore e regista; Simonetta Dellomonaco, architetto paesaggista e Project Manager; Marco Di Stefano, drammaturgo e regista, membro del direttivo di Associazione ETRE, Esperienze Teatrali di Residenza; Lorenzo Donati, giornalista e critico teatrale; Michele Losi, direttore de Il Giardino delle Esperidi Festival e di Campsirago Residenza;Alberto Momo, regista e critico cinematografico; Rita Júlia Sebestyén, ricercatrice, autrice, curatrice e regista, dirige OthernessProject (DK). Alessandra Valerio, Fondazione Cariplo. Sara Vilardo, performer e regista; Sjoerd Wagenaar, regista e ricercatore di teatro sociale e di Teatro nel paesaggio, fondatore di PeerGroup (NL).

Questo contenuto è pubblicato anche su Altre Velocità e fa parte di un progetto condiviso di osservazione e ricerca “Teatro e Paesaggio” in collaborazione con Campsirago Residenza