da John Poole e Antonio Petito a William Shakespeare
di Emanuele Valenti e Gianni Vastarella / Punta Corsara
visto al Teatro Franco Parenti di Milano _ 13-25 gennaio 2015
Ormai abbiamo imparato a conoscere Punta Corsara, la compagnia nata nel 2007 da un progetto di impresa culturale della Fondazione Campania dei Festival per il Teatro Auditorium di Scampia e diventata, dopo un percorso triennale di formazione ai mestieri dello spettacolo, un’associazione indipendente e un gruppo di professionisti a tutti gli effetti. Li abbiamo rivisti solo qualche settimana fa al Pim Off di Milano con Il convegno e già tornano nel capoluogo lombardo con Hamlet Travestie, lo spettacolo commissionato nel 2013 dal Teatro Franco Parenti nell’ambito del progetto Tfaddal, per i 40 anni dall’Ambleto di Testori.
Dell’Amleto shakespeariano sembra di riconoscere, all’inizio dello spettacolo, solo il nome del protagonista e il suo carattere ermetico e schivo. Poi, passando per l’Hamlet Travestie, parodia ottocentesca di John Poole, e il Don Fausto di Antonio Petito – in cui il Faust di Goethe riviveva nella delirante crisi di identità causata dall’omonimia del protagonista – si arriva all’originale riscrittura di Emanuele Valenti e Gianni Vastarella. Ancora in lutto per la morte del padre, Amleto Barilotto aggrovigliato nella sua coperta a quadri legge Amleto e si convince che la sua storia abbia qualcosa in comune con quella dell’omonimo eroe shakespeariano. Il dramma prende forma così nella farsa che la famiglia Barilotto, spinta da “o professore” (interpretato dallo stesso Valenti), decide di inscenare davanti al figlio sperando di farlo rinsavire. Trovandosi davanti all’assurdità della vicenda e alla follia dei suoi cari, pensa il professore/Don Liborio, il giovane potrà tornare a distinguere il reale.
La tragedia messa in scena dai personaggi, un Amleto in versione pop/kitsch, porta a sovrapporre le figure di Ofelia, Gertrude, Claudio e Laerte con quelle della stessa famiglia Barilotto che lotta contro i debiti e cerca di mantenere il proprio banco al mercato. I quattro stesi al sole in una domenica di incontri e gag, nella quotidianità di una Napoli che il teatro sa ben raccontare, diventano i poco verosimili protagonisti di una messa in scena guidata dal professore, con una regia arrangiata (lo spirito del padre si mostra attraverso il vetro di un box doccia) e un testo improvvisato (le battute del testo shakespeariano saranno spesso modificate dalla lingua partenopea e dalla scarsa memoria dei familiari-attori). Il risultato è esilarante e allo stesso tempo amaro: nell’assurdità della situazione si legge il disagio del quotidiano, che non sta solo nell’impossibilità di liberarsi dal giogo dello strozzinaggio ma anche dall’incapacità di filtrare (e affrontare) il reale e, infine, di restituire autorevolezza al drammaturgo più noto al mondo.
Lo spazio scenico nella sua semplicità – le panche segnano i limiti di uno spazio domestico e diventano banco del mercato, letto, altare e bara, nella messa in scena del dramma – valorizza i caratteri e i colori dei singoli personaggi, oltre al ritmo dell’acuto intreccio e all’energia dirompente degli attori.
La farsa raggira la tragedia e, mescolandosi con la povertà, con la camorra e con un omicidio che, alla fine, ci sarà davvero, torna a essere tragedia nella Napoli di oggi. Ogni tentativo di fuga, dalla follia della mente e dall’incalzare della malavita, sarà impossibile. L’autobus che porta in Danimarca non esiste e, anche esistesse, la Danimarca è una prigione.
Francesca Serrazanetti