di Armando Punzo
visto all’Hangar Bicocca di Milano _ 23 febbraio 2011
A ben guardare, ci sarebbe molto da scrivere sull’unica data milanese di Hamlice, e non solo a proposito di teatro. Perché oltre ad Armando Punzo e agli straordinari attori della compagnia della Fortezza, martedì 23 Febbraio all’hangar Bicocca è andata in scena Milano. Certo di essere di fronte a uno degli appuntamenti imperdibili della stagione, un pubblico che assomigliava per numero più a quello di un concerto che a viagra buying online quello di un evento teatrale si è messo in coda per ritirare i moltissimi biglietti prenotati.
E l’allestimento della Compagnia della Fortezza, che i giornali preannunciavano come spettacolo itinerante, non ha fatto che aumentare la smania dell’evento: i milanesi, tra un saluto e un incontro a sorpresa, anche con molte facce note del mondo della cultura meneghino, si aggiravano per l’ampia superficie dell’hangar, in uno spazio scenico diffuso, non senza qualche inquietudine, come in preda a una sorta di ansia sotterranea: quella di non riuscire a capire, a cogliere il filo dell’operazione, la trama segreta dell’opera, il cuore delle intenzioni, la bravura degli attori-detenuti, il messaggio del regista, Armando Punzo.
Un effetto straniante che certo sarebbe piaciuto a Lewis Carroll e che ben si adatta alle surreali e oniriche atmosfere della sua Alice, bambina curiosa del mondo che non ha paura del diverso e che oltrepassa barriere e pregiudizi con una gran dose di ironia e capacità di andare oltre alle apparenze. Ma questo sguardo, dissacrante e pungente, non è la vera cifra dominante dell’allestimento di Punzo, come si evince già dal titolo: la crasi Hamlice non è sicuramente un puro gioco linguistico. L’Amleto shakespeariano, con le sue cupe atmosfere, fornisce l’altro polo su cui si focalizza la regia. Come se il personaggio di Alice, con la sua fantasia, il suo interesse ingordo e senza limiti, rappresentasse la possibilità di fuggire dall’ossessione chiusa del principe di Danimarca, la possibilità di rovesciare e scoprire altri luoghi e, in un certo modo, anche la libertà. E se qualcuno può parlare senza retorica di libertà, di muri abbattuti, anche soltanto per un momento, del teatro come regno dell’impossibile, quello è Armando Punzo, che ha passato gli ultimi ventuno anni della sua vita tra le mura della casa penale di Volterra, e con lui la sua compagnia di detenuti-attori.
Così gli spettatori si aggirano anch’essi in questa corte dall’inquietante potere immaginario, tra attori dal volto dipinto di bianco, dalle settecentesche parrucche e dai tacchi alti da drag queen (tra i quali lo stesso Punzo), tra personaggi che vagolano con in mano un teschio e brandelli di testo, pavimenti tappezzati da passi dell’Amleto, gigantesche tazze da the. Per chi ha visto lo spettacolo a Volterra – dove questo regno dell’immaginario altro non era, significativamente, che il carcere – resta la sensazione che l’allestimento e lo spazio milanese non si siano del tutto adattati l’uno all’altro: ai corridoi e alle stanze del carcere che guidavano lo spettatore tra spazi aperti e chiusi, tra intimità e confusione, si è sostituito un unico enorme spazio, in cui la messa in scena ha dovuto peraltro integrarsi con le mostre in corso all’Hangar e con i Sette Palazzi celesti di Kiefer, qui esposti permanentemente. Un’ambientazione suggestiva ma forse troppo dispersiva per il puzzle di frammenti pensato da Armando Punzo.
Ma le perplessità, se ci sono state, si sono dissipate in uno dei momenti tra i più toccanti, a nostro parere, dell’intera messa in scena: quando, tra gli applausi fragorosi, gli attori-carcerati si sono mostrati tutti, finalmente uno di fianco all’altro, sulle note delle musiche originali di Andrea Salvadori. Per poi avviarsi subito dopo verso le quinte, dopo essersi allontanati per un momento – proprio come i personaggi di Shakespeare – dal loro destino senza scappatoie.
La Redazione