Credo sia necessario, prima ancora di iniziare a parlare di Hard to be a god, lo spettacolo di Kornél Mundruczó presentato al Festival del Teatro della Biennale di Venezia, mettere bene in chiaro un principio fondamentale, e cioè che pensare di confrontare – come sappiamo usa fare – questo lavoro, che per altro risale al 2010, con Imitation of life, la creazione che ha rivelato due anni fa l’ingegno del regista ungherese al pubblico italiano, o con Pieces of a woman, il suo film attualmente oggetto di vaste e calorose attenzioni, non sarebbe soltanto improprio, ma anche profondamente sbagliato. Vedere più opere di un artista non serve a stilare inutili graduatorie, ma a mettere a fuoco uno stile, una poetica, un percorso inventivo. E più che mai nel caso di Mundruczó è lo stile che fa da detonatore ai contenuti, che li modella e in qualche modo li ispira.
Se al centro di Imitation of life c’era un autentico appartamento ricostruito sulla scena, che a un certo punto si ribaltava, ruotava interamente su se stesso riversando al suolo centinaia di arredi e suppellettili, qui ci sono tre enormi camion dislocati su un terreno aperto – per l’occasione, un prato del Parco Albanese di Mestre – due disposti attorno alla platea, come incombenti quinte, l’altro di fronte ad essa, in posizione trasversale, a fare da palcoscenico. Quando inizia lo spettacolo, il telo che copre la fiancata di quest’ultimo scorre orizzontalmente come un sipario svelando una sorta di lunga stanza-laboratorio minuziosamente riempita di un pittoresco bric a brac, tavoli da lavoro, scaffali ricolmi di scatole, sedie spaiate, grucce da cui pendono file di pantaloni appena confezionati, manichini, accessori, pezze di stoffa, pentole e pentolini, macchine da cucire.
In questo capannone semovente, insieme provvisorio e oppressivo, parcheggiato alla frontiera di un Paese dove si tollerano traffici illeciti, si aggira una varia umanità ugualmente spaiata e assemblata malamente, camionisti, uomini addetti ad attività poco limpide, tre ragazze che intuiremo subito essere parte di un giro di prostituzione, tutti sciatti, di aspetto poco attraente, vestiti malamente, felpe, ciabatte, magliette dozzinali, tranne una donna dall’aspetto più curato, che sembra dirigere quell’impresa a metà fra la sartoria clandestina e il bordello viaggiante, e un uomo in camice azzurro e con le mani rosse di sangue, che viene indicato come il medico responsabile della salute del gruppo, ma dichiara di essere l’abitante di un altro pianeta, inviato sulla Terra con un ruolo di mero osservatore, senza l’autorizzazione a interferire con ciò che vede accadergli intorno.
Anche stavolta, dunque, come già in Imitation of life, Mundruczó parte da una chiave di realismo estremo, crudo, esasperato, quasi da un’inesorabile ossessione iper-realistica, che poi sottopone a una specie di graduale corrosione, la scrosta, la scalfisce, la avvolge in una livida foschia che lascia appena intravedere il disegno che c’è sotto. Il suo procedimento, che sospinge a poco la bassa quotidianità verso una febbre visionaria dai fibrillanti echi simbolici, passa addirittura attraverso un romanzo di fantascienza, Hard to be a god, appunto, dei fratelli Arkady e Boris Strugatsky, ma anch’esso lo sfiora, lo metabolizza e se lo lascia vorticosamente alle spalle per approdare a una dimensione del tutto personale dove la tensione politica e morale si carica via via di suggestioni più sottili e sfuggenti, persino vagamente metafisiche.
E il suo obiettivo, probabilmente, è proprio questo, condurre chi lo segue a brancolare in una penombra mentale dove ogni gesto sembra insensato e nel contempo ogni gesto sembra rimandare a ulteriori significati di ardua decifrazione.
Già l’idea di quelle disgraziate costrette di giorno a cucire jeans per Gucci e la sera a vendere i propri corpi sembra la metafora di uno sfruttamento spinto all’eccesso in ogni sua forma. Ma la vicenda è più complessa, e si intreccia con un torbido complotto politico: d’intesa con quella tenutaria vagamente brechtiana che gestisce le prostitute agisce infatti il viscido e misterioso dottor Károly, potente capo di una setta di sadici che costringe le ragazze a partecipare a snuff movies destinati a culminare nella morte di una di loro. Lo scopo di costui, però, non è il piacere sessuale, è lo smascheramento, attraverso questi video, del suo stesso padre, un importante leader coinvolto in non si sa quale storia di incesto e morte di un ragazzo, la cui caduta dovrebbe provocare un imperscrutabile ribaltamento dell’ordine mondiale.
Alle sofferenze e alle sopraffazioni che le ragazze devono subire nel camion, fra cui l’imposizione di sottoporsi a delle umilianti analisi urinando davanti a tutti, e un atroce tentativo di aborto con la stecca metallica di un ombrello disinfettata col Cif, si assommano su un secondo camion le inaudite torture che vengono immortalate in quel truculento video, perpetrate in uno spazio laterale adibito a deposito di pneumatici e mostrate al pubblico soltanto su uno schermo: a una delle vittime viene bruciata la schiena, un’altra la seppelliscono viva. All’apice di queste efferatezze il finto medico presunto abitante di un altro pianeta non può continuare a sottostare al suo ruolo di semplice osservatore, trasgredisce agli ordini e compie una sanguinosa strage, massacrando i colpevoli a uno a uno e riportando a casa le ragazze sopravvissute.
A un primo livello di lettura appare evidente che quell’inferno su ruote altro non è che l’Europa odierna, un camion-Europa in cui la fatuità convive col cinismo, il vizio si mescola con l’intrigo, i capi firmati con la tratta delle schiave. Il riferimento a Gucci – così esplicito e dichiarato – non è certo casuale. E non è casuale che i personaggi femminili, pur fra lo squallore e la brutalità da cui sono circondati, si mettano di tanto in tanto a danzare e cantare sculettando come le partecipanti a un incongruo talent-show. E il fatto che la canzone da loro intonata sia un vecchio successo internazionale, Mamy Blue, che negli anni Settanta ebbe ampia diffusione in tutto il continente – e qui è adottato come una sorta di inno della tenutaria del bordello viaggiante, che si fa appunto chiamare Mamy Blue – non fa che avvalorare (anche ironicamente) l’idea di un cupo affresco della cultura occidentale.
Ma al di là di questo approccio più immediato va preso in esame anche un successivo livello di interpretazione: molti elementi, in questo quadro da incubo, toccano più o meno direttamente la sfera del guardare e dell’essere guardati, del mostrare o del mostrarsi, il che fa pensare inevitabilmente a una distorta metafora del teatro: certamente, come si è detto, il camion è un palcoscenico, dove le attrici si esibiscono anche in grotteschi balletti e coretti, ambigui avanzi di uno show degradato. Le azioni che si svolgono nel deposito di pneumatici non sono a loro volta concluse in se stesse, ma servono a produrre un video che, nelle intenzioni di chi l’ha ordito, il mondo intero dovrà vedere. I suoi esecutori parlano addirittura di una sceneggiatura, di una trama preordinata dalla quale non è consentito discostarsi. E la strage finale, così cruenta e spietata, evoca l’esito di una tragedia greca o di un dramma elisabettiano.
Ciò che va in scena, nel concitato microcosmo del camion, tra fiotti di sangue, deliri pornografici, progetti eversivi, loschi affari, è semplicemente la vita. Sembra che, di questo infame spettacolo che è la vita, il truce dottor Károly sia una sorta di regista, e l’uomo venuto da un altro pianeta l’unico spettatore. Oppure il regista vero è colui da cui quest’ultimo prende ordini, qualcuno che sta al di fuori e al di sopra delle vicende umane, mentre tutti gli altri non sono che fantocci in carne e ossa guidati verso un fato preordinato. Ma si può restare al di fuori o al di sopra delle vicende umane senza divenire corresponsabili del male che avviene sotto i nostri occhi? L’ipotetico viaggiatore spaziale di Mundruczó rifiuta il ruolo che gli è stato assegnato, si pone faccia a faccia con le proprie responsabilità, interviene nella folle realtà della rappresentazione per modificarla e riportarla a un precario equilibrio. Non rimane spettatore passivo di fronte allo sfacelo di una civiltà, anche se il suo tentativo di opporsi ad esso – e qui sta il problema – comporta la scelta di abbandonarsi a comportamenti altrettanto barbari.
Resterebbe da porsi qualche interrogativo su quel dio del titolo, che forse ci sospinge verso profondità ancora più insondabili. Tutto il testo – firmato, oltre che dal regista, da Yvette Mirò, mentre i bravissimi attori sono quelli consueti del Proton Theatre, fra cui spiccano Annamária Láng, Kata Wéber, Roland Rába – sembra percorso da un furore che si tinge di un afflato quasi religioso. Quel figlio che aspira ad abbattere il potere paterno ha qualcosa di biblico, e gli annunciati rivolgimenti che dovrebbero derivare da questo ideale parricidio gli conferiscono qualcosa di archetipico. L’atto incestuoso che ne sarebbe all’origine, oltre che dei ed eroi della mitologia classica, sembra evocare una sorta di oscuro peccato originale. In una delle ultime battute si fa inoltre significativamente cenno al tema del libero arbitrio. L’osservatore che non accetta più di limitarsi a osservare è un Prometeo che si ribella al dio, o è un dio che si ribella a se stesso? Per arrivare al nucleo di questo inquieto arabesco etico occorrerebbe soppesare le sfumature di ogni singola parola, cosa impossibile da fare per via della scarsa qualità dei sottotitoli, forniti direttamente, a quanto pare, dalla compagnia, e generalmente mal sincronizzati con le battute degli attori, difficili da attribuire a questo o a quel personaggio.
Lo spettacolo si chiude con una lunga, bellissima sequenza, proiettata sullo schermo, in cui vediamo quell’uomo venuto da altri mondi – forse tornato al suo pianeta – tutto vestito di bianco sullo sfondo di un solitario paesaggio palustre, intento a fissare l’obiettivo con uno sguardo intensamente rivolto al proprio interno, come perduto in un silenzio catartico. E a distanza di giorni non posso fare a meno di continuare a chiedermi cosa ci dica o non ci dica quel suo enigmatico silenzio, quali altre vie di accesso ci suggerisca a questa impervia e stratificata costruzione intellettuale.
Renato Palazzi
Hard to be a God
di PROTON THEATRE / KORNÉL MUNDRUCZÓ
Con Annamária Láng, Kata Wéber, Diána Magdolna Kiss, Marina Gera, Roland Rába, Gergely Bánki, László Katona, János Derzsi, János Szemenyei, Zsolt Nagy
Regista Kornél Mundruczó
Scritto da Kornél Mundruczó, Yvette Bíró
Dramaturg Viktória Petrányi, Éva Zabezsinszkij
Musica János Szemenyei
Assistente regista Dóra Büki
Scena, costumi Márton Ágh
Luci András Éltető
Supervisore alla produzione Judit Sós
Direttore di produzione Dóra Büki
Assistente di produzione Péter Réti
Direttore tecnico András Éltető
Tecnico luci András Éltető
Tecnici del suono Zoltán Belényesi, János Rembeczki
Attrezzista Gergely Nagy
Aiuto costumista Jánosné Cselik
Co-produzione Alkantara Festival, Lisbona, Portogallo; Baltoscandal, Rakvere, Estonia; Culturgest, Lisbona, Portogallo; KunstenFestivalDesArts, Bruxelles, Belgio; Rotterdamse Schouwburg, Paesi Bassi; Theater der Welt 2010, Essen, Germania; Théâtre National di Bordeaux in Aquitania, Francia; Trafó House of Contemporary Arts, Budapest, Ungheria
Sostenitori NXTSTP
Con il sostegno di Cultural Program European Union, EkyLight, Open Society Institute, PropClub, VisionTeam
visto a La Biennale Teatro, Venezia, 6 luglio 2021