di Simon Stephens
regia di Elio De Capitani
visto al Teatro Elfo Puccini di Milano_9  febbraio-6 marzo 2016

Nel mezzo del cammin di sua vita, Harper Regan è piuttosto disorientata. Sarà per il lavoro, dove il suo capo, un tipetto alquanto viscido e dispotico, non intende concederle nemmeno un giorno di ferie per far visita al padre gravemente malato. Sarà per il contesto familiare che nasconde più di qualche tensione. Certo Harper ama la sua famiglia, e la sua famiglia ama lei, ma non è facile tenere la bussola nel verso giusto con la consapevolezza che Seth, suo marito, è stato sospettato di pedofilia e che sua figlia Sarah, per quanto sveglia e intelligente, è ancora un’adolescente dal futuro incerto. Niente paura. Non sono le avvisaglie di una tragedia. Harper Regan è un’eroina contemporanea a cui non si addicono certe “isterie morali” dai toni troppo marcati. Anzi: il viaggio che sta per compiere al capezzale paterno, senza avvisare nessuno, serve proprio a fuggire da giudizi esageratamente apodittici e a cercare un nuovo equilibrio, una nuova direzione interiore che le consenta di comprendere meglio se stessa e il prossimo.

Elio De Capitani importa Simon Stephens dall’Inghilterra, confermando – se ce ne fosse stato bisogno dopo Angels in America, Frost/Nixon e History boys – la predilezione del suo teatro per le drammaturgie anglo-americane. Lo fa con un’opera difficile da catalogare, sia per la varietà dei temi trattati, innervati di implicazioni morali e psicologiche (accettazione dell’altro, pietà laica) e di considerazioni sociali (immigrazione/razzismo, scontro generazionale), sia per l’andamento della storia: undici quadri il cui dipanarsi sembra dipendere direttamente dalla protagonista. Harper Regan s’impossessa del centro della scena fin dal titolo (originariamente la pièce era imperniata su Seth) e costringe lo spettatore a seguirla, imponendo la sua presenza, il suo punto di vista. Una prospettiva traumatizzata, impulsiva, vagamente nevrotica, tanto che ogni azione di Mrs. Regan, ogni suo dialogo, sembra svilupparsi per associazione di idee: se il suo datore di lavoro disquisisce – con ugual straniante sicumera – di siti per incontri sessuali e dell’amoralità dei giovani d’oggi che bighellonano per strada, Harper si troverà presto a discutere con un ragazzo a zonzo sul bordo di un canale e poco più tardi risponderà a un annuncio hot. Se un momento prima la vediamo osservare ammirata la giacca di pelle di sua figlia o ricevere da Tobias (il ragazzo del canale) il consiglio di andare senza indugi dal padre in barba alle conseguenze lavorative, eccola correre all’aeroporto la notte stessa e impadronirsi, qualche ora dopo in un bar, del giubbotto da ribelle di un discutibile ammiratore. Come chi non riesce più a trovare un equilibrio, Harper riutilizza quanto le viene detto dagli altri, si appiglia, per così dire, a quello che le suggerisce l’istinto, la sua inclinazione naturale. Non si tratta però di una regressione sterile e meramente egoistica: come in una seduta di psicanalisi, il percorso a ritroso è anche un confronto con il proprio passato, con le figure genitoriali: è il tentativo di superare un doppio complesso di Edipo (padre e marito) e vincere le difficoltà relazionali.

De Capitani cesella con grande abilità l’impianto allegorico del testo e, affidandosi alla sofisticata scenografia di Carlo Sala e a un cast decisamente in parte (in cui spiccano Camilla Semino Favro e Martin Chishimba), costruisce atmosfere rarefatte ma, al contempo, estremamente solide e credibili. Un “realismo allusivo” perfettamente bilanciato dalla regia che gioca con intelligenza, in un sistema di pesi e contrappesi, a stemperare/sottolineare dinamiche e situazioni. Lo si vede bene nelle pennellate delicate con cui viene tratteggiato il rapporto di Harper con Tobias e in quelle più decise (forse le uniche apertamente simboliche) che la ritraggono mentre rischia di essere schiacciata da un enorme tubo (il suo dramma familiare) precipitato dall’alto di un cantiere. Alla stratificata opera di Stephens, permeata da una sotterranea ambiguità di fondo, De Capitani risponde con soluzioni semplici ma efficaci come la sovrapposizione di piani: tre porte sullo sfondo amplificano la profondità di campo e lasciano intuire un ulteriore livello narrativo dietro la superficie scenica. La vita, del resto, è anche e soprattutto questo: questione di prospettiva. Ce lo insegna Haper Regan che non arrendendosi alla sua condizione di vittima, in un finale che incrina la quarta parete, fa ritrovare a sé, alla sua famiglia e allo spettatore la capacità di guardare avanti. Ce lo insegna anche il teatro di De Capitani, uno dei pochi registi capaci non solo di cercare i testi “della modernità” – sono in molti ormai a rovistare oltremanica e oltre oceano con esiti meno felici – ma anche di leggerli, interpretarli e restituire quella modernità. E la differenza si nota.

Corrado Rovida