di Henrik Ibsen
regia di Antonio Calenda
visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano_ 3-13 ottobre 2013
Annoiata, contraddittoria e tormentata, Hedda Gabler potrebbe essere una nostra contemporanea. Si tratta invece della protagonista di uno dei drammi più riusciti e complessi di Ibsen, in scena in questi giorni al Piccolo Teatro. Per questo difficile e affascinante ruolo Antonio Candela sceglie l’attrice Manuela Mandracchia, che tra sussulti, risate isteriche, contorsioni e respiri affannosi offre al pubblico una straordinaria prova recitativa.
Intorno a questo personaggio, ben lontano per modernità dagli stereotipi femminili dell’epoca, ruotano quattro uomini, in relazione ai quali la protagonista muta vorticosamente, non senza malizia, la sua schizofrenica personalità: il generale Gabler che resta, pur nell’assenza, un punto di riferimento irrinunciabile per la figlia Hedda; il marito Jørgen Tesman, intellettuale piccolo-borghese che ambisce disperatamente a una cattedra universitaria, sposato dalla protagonista solo per ragioni economiche; Ejlert Løvborg, scrittore geniale e sregolato, che Hedda indurrà a uccidersi; infine, il viscido e meschino giudice Brack da sempre infatuato della donna, che diverrà responsabile del suo suicidio.
L’atmosfera tetra e lugubre del dramma è evocata perfettamente sulla scena da una stanza angusta, arredata in modo modesto e scialbo, in cui l’oscurità regna sovrana: solo uno spiraglio di luce fa capolino, di tanto in tanto, dall’esterno. Al centro di questo squallido ambiente troneggia il ritratto del padre di Hedda, che evoca, come un continuo monito crudele, uno stile di vita nobile ed elevato che fa da contraltare alla sofferta mediocrità della protagonista.
L’ottima sinergia degli attori, sia nelle scene corali che in quelle a coppie, conferisce alla rappresentazione un ritmo movimentato e convincente, capace di tenere viva la tensione emotiva per più di due ore di spettacolo. Particolarmente riusciti i ruoli di Hedda e Thea (Simonetta Cartia), la cui radicale alterità è evidenziata fin dagli abiti e dal portamento: all’abbigliamento superbo e ricercato della protagonista e ai suoi modi austeri e sprezzanti corrispondono, per contrasto, i vestiti dimessi e castigati di Thea e la sua ostentata ingenuità. L’enfasi iperbolica che accomuna la gestualità e i movimenti di tutti i personaggi in scena stigmatizza, con incredibile efficacia, l’ipocrisia e la vuota formalità borghese di fine Ottocento, che caratterizza i personaggi ibseniani.
Con una regia più che riuscita, Calenda rappresenta la condizione tragica e ineluttabile di Hedda, confinata in un microcosmo claustrofobico e deprimente, vuoto di senso e privo di affetti sinceri. Spesso una vita di sole apparenze, sembra dirci il regista, oggi come ai tempi di Hedda, finisce per essere una trappola letale, senza ritorno.
Alessandra Cioccarelli