Sulla scia di Blue Eyes, anche il secondo testo del nostro approfondimento sul giovane drammaturgo Tyrfingur Tyrfingsson, Helgi Comes Apart (2019), ci presenta una storia tragicomica, noir e surreale, in uno spaccato islandese di interni bui e pieni di contraddizioni. Il titolo del miglior testo della stagione 2019/2020 ai premi Griman (l’equivalente islandese dei nostri Ubu) pare alludere a una specie di romanzo di formazione, con il nome del protagonista che richiama a sua volta un celebre guerriero della letteratura norrena e di poemi come Helgakviða Hjörvarðssonar. E invece Helgi non ha nulla dello spirito coraggioso e nobile dei suoi antenati, nonostante sia (forse) il più innocente e ingenuo fra i personaggi del testo. E neppure si può parlare propriamente di Bildung, poiché se proprio egli impara qualcosa, ciò avviene a un prezzo altissimo e inutilmente doloroso. C’è tuttavia un che di leggendario in Helgi comes apart, anzi di profetico, che riguarda la conoscenza di un tempo vuoto, la sua memoria opprimente e la sua ripetizione ciclica. Una catastrofe preannunciata a cui non si sa bene se credere o no, e che tuttavia alla fine, per una serie di circostanze apparentemente casuali, arriva a realizzarsi.
Il regista che voglia mettere in scena il testo di Tyrfingsson dovrà stare attento a tenere in vita queste peculiari ambiguità, tema profetico incluso, per quanto qui la sfera magico-religiosa si colori di forte tinte visionarie e folli. A farsene latore non è infatti un sacerdote, ma un tanatoprattore, un addetto dell’obitorio, Jón. Questi parla confusamente di una visione avuta in trance, di carni bruciate, di qualcosa che muore e infine di una lingua tagliata, quella del figlio. Che si tratti proprio del padre di Helgi non è casuale. Torna un altro motivo caro al drammaturgo, ovvero il peso dei padri sui figli, e quindi il conflitto generazionale: a differenza di Blue Eyes, però, in cui il divario anagrafico era più ampio e l’azione più violenta, qui il rapporto col padre è più mediato, e le conseguenze negative sulla vita del protagonista sono in parte già evidenti, per poi palesarsi del tutto soltanto alla fine – a profezia avverata. Quando quest’ultima viene annunciata, Jón è appena piombato in obitorio, in uno stato confusionario, subito dopo una sorta di overdose da dolci autolesionista, data la sua cronica malattia al colon. Il padre stesso offende il defunto sul cui cadavere si accinge a lavorare, lamentandosi della paga praticamente nulla riservata a quel servizio. E non gli importa che lì, dinanzi alla salma, ci sia la figlia del defunto, Katrín: una ragazza che subito cattura gli interessi di Helgi e che tuttavia non si mostra affatto legata al padre, anzi ce lo descrive come un genitore assente, tanto che non ha intenzione di partecipare al suo funerale. Ancora una volta: un conflitto generazionale tutt’altro che risolto. Battute cariche di ironia e di humor nero lasciano intravedere personaggi disincantati, cinici, privi di ogni morale. L’unica cosa che dà azione alle prime scene di questo mondo immobile è l’innamoramento mal dissimulato di Helgi, che arriva a offrirsi di organizzare e addirittura cantare al funerale del padre di Katrín. L’amore, per lui, equivale a una piccola rivoluzione rispetto alla monotonia del tempo, di un tempo vuoto, solitario, senza certezze, vissuto all’ombra del padre. Ma sarà lo stesso amore a chiudere la parabola di quest’unico personaggio tragico:
HELGI: It’s just that, you know like I’ve never experienced this kind of coincidence before. I never get these like omens or visions that my dad is always getting, in his dreams and that kind of stuff. I never get any extra information, because the universe like forgets to send me any signs. That is, until this morning when just by coincidence, we meet another time. And I’m actually in a position where I can help you. And you need someone to help you. And I’m kind of good at talking to you. I’m always really missing something, you know sometimes I just really miss my mom, and everytime that I’m wearing shoes I really miss just having my socks on, but when I’m barefoot and my feet get cold, I really miss wearing shoes but like all of that just kind of switches off when you’re there, telling one of your bullshit stories. Even when you’re being cold to me you’re still kind of warm, you can’t help it. Would you let me help you?
KATRÍN: Sure, I need some help shoving that knife up this chicken’s ass and chopping its tits off, because I’ve never made roast chicken before.
È difficile riassumere la trama di Helgi Comes Apart senza soffermarsi sui suoi personaggi negativi: disadattati sociali, meschini e arrivisti, figli e padri scarti del peggior capitalismo globalizzato, che faticano a mandare avanti un’azione concreta poiché troppo viziati, arrabbiati, indecisi e, in fondo, feriti. Da tutto ciò nasce la goffa comicità e l’atmosfera assurda del mondo di Tyrfingsson: surreali sono i profili umani, ma il mondo in cui si muovono è realmente buio, senza redenzione, apocalittico. È in questo contesto che il gesto “amoroso” di Helgi – celebrare il funerale del padre di Katrín – appare ridicolo, fuori da ogni contesto morale e sociale, eppure profondamente “vero”. Allo stesso clima appartengono altri momenti della drammaturgia: il dialogo con un fornaio umorale e malato di videogames, amante morboso di Helgi e (tanto per cambiare) padre degenere di una figlia maltrattata; l’approccio sessuale di colpo interrotto perché le mutande bianche di Helgi ricordano a Katrín il tanto odiato padre; il ricordo del funerale della madre di Helgi, sostituito da lui e dal padre con una visita al museo delle cere; la disperazione violenta di una bambina che reclama del pane a levitazione naturale, in nome del proprio programma dietetico.
Al di là delle assurdità, forse il vero fulcro di Helgi Comes Apart sta nell’alto grado simbolico e metaforico che investe i personaggi. È il caso del gioco di Helgi e Katrín: simulare una discussione di una coppia sposata e patetica che parla delle offerte del supermercato e dell’acquisto di chili e chili di pomodori. I pomodori marci, le torte ammuffite del panettiere, la carne del pollo preparato da Katrín, quella dei corpi nel rigor mortis dell’obitorio, le cosce d’agnello congelate che Jón prova ad arrostire nel forno crematorio: come elementi di un grande affresco, nel loro insieme essi paiono parlarci di una vita guastata dal tempo, di un post-mortem privo di spiritualità, anzi fortemente materico. L’altro fil rouge metaforico – dall’alto potenziale scenico – è rappresentato dal forno, le cui fiamme sono evocate nelle visioni di Jón: esso è presente nelle scene dell’obitorio, del fornaio e del salotto di Katrín, diventa un’arma nei litigi villani fra Jón e il fornaio, strumento di un suicidio a scopo vendicativo. Da ultimo si sovrapporrà all’utero di Katrín, che abortirà per via di un sadico e infantile gioco presentato a Helgi nell’ultima scena.
Immagini di morte e di vita che tornerà morte, le quali da un lato non possono non richiamare ancora il tema genitoriale, dall’altro ci parlano di una società che ride del suo stesso rogo. È ancora Katrín a prolungare questa infinita catena allo stremo, prendendosi gioco del tempo attraverso il richiamo a una farfalla molto particolare:
KATRÍN: You know, I love to drink red wine and read articles on Wikipedia.
There’s this long article about the most beautiful butterfly in the world, except it’s not technically a butterfly, it’s a moth, but I think it’s almost the same thing. It’s called the Atlas butterfly. Maybe you wrote the article. The Atlas butterfly is huge but it doesn’t have a mouth, it crawls out of the cocoon and it flies around and it just fucks all day long until night comes and it dies. Maybe it starves to death, who knows. Just born to fuck and be beautiful. Little slut.
HELGI: What was it you wanted to tell me?
KATRÍN: Right before the butterfly dies, when it’s been fucking nonstop all day and its wings are starting to feel weak, the butterfly starts to wonder how its wings ever really worked at all, and then it remembers that all day long, it didn’t even notice it was flying.
HELGI: Don’t you think you’re more like the larva than the butterfly?
KATRÍN: When you say something like that, that I’m the larva, how am I supposed to act like anything other than larva? You’re like your dad and his premonitions.
HELGI: Which already started coming true.
KATRÍN: What do you mean?
HELGI: My best friend burned himself to death. He climbed into the cremator.
KATRÍN: I guess this country does get very cold… What’s supposed to happen next?
HELGI: It doesn’t even matter, it’s over, nothing else is going to come true, it’s just a coincidence.
KATRÍN: Death.
A Tyrfingur Tyrfingsson non interessa scrivere una bella storia sul degrado sociale islandese e occidentale. Privo di moralità e fedele solamente all’anarchia dei propri personaggi, Helgi Comes Apart si mostra vicino ad alcuni dei primi testi di Sarah Kane (Phaedra’s Love, Cleansed). La drammaturgia pare invitare il regista a mantenere la visione d’insieme di questo affresco post-moderno, la cui goffa ironia è potente perché tragica e senza lamenti. Questa tragedia è invisibile, continuamente dissimulata da azioni di fuga, prive di logica: come una farfalla che non si sa nutrire, che si consuma senza accorgersi neppure di volare. La profezia di Jón non si avvera per una serie di incastri e coincidenze del destino: essa è già iscritta nella carne delle personae, nel loro lento consumarsi sulla scena. La risata del pubblico, incontrando quella infantile di questi padri e figli, è amara come un veleno.
Riccardo Corcione
Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto con una mail a [email protected].