di Marie Ndiaye, regia di Renzo Martinelli
visto al Teatro i di Milano _ 7-26 novembre 2012

Hilda. Basta un nome, un banalissimo nome, per convincersi che il suo proprietario appartenga a una tipologia di persona ben precisa, un individuo fedele a tutte le caratteristiche che quel nome evoca in noi, che diventa, per dirla in breve, l’idea che ce ne siamo fatti.
Così accade che una ricca bo-bo (bohémien bourgeois) della provincia francese faccia di una domestica il proprio oscuro oggetto del desiderio da plasmare e forgiare a propria immagine e somiglianza.

Renzo Martinelli riporta al Teatro i Hilda, (da pronunciarsi rigorosamente Hildà, come il francese richiede) lo spettacolo che nel 2011 ha vinto il Premio della Critica e che ha consegnato a Federica Fracassi l’Ubu come migliore attrice protagonista. Il testo di Marie NDiaye, autrice di origini senegalesi molto apprezzata in Francia, esplora alcune tematiche sociali assai più sentite oltralpe che nel bel – ma meno sensibile – paese, quali l’evoluzione del conflitto di classe (alta borghesia di sinistra vs proletariato), l’integrazione dei ceti subalterni, la condizione della donna ‘post-emancipazione’.
Mutuando dal teatro dell’assurdo di Beckett l’assenza palpabile della protagonista e da quello di Pinter le situazioni tese e minacciose, Hilda si risolve nel confronto vis à vis tra Frank, il marito di Hilda, e la signora che ne diventa la datrice di lavoro-padrona.
Nell’estenuante braccio di ferro iniziato per stabilire a chi appartenga la donna, ridotta al rango di proprietà, le scene si susseguono in una ciclicità quasi ripetitiva e gli intervalli nei quali una rumorista – che nel finale interpreterà Corinne, sorella di Hilda – ricolloca gli oggetti di scena non fanno altro che accentuarne l’ossessività.

Tuttavia è proprio dai cambi scena che si può partire per trovare la chiave di lettura dello spettacolo.
Mentre la ragazza sistema la scena e i due protagonisti, come gli automi di un orologio meccanico, compaiono da dietro le quinte a scandire lo scorrere delle loro vite, vengono proposte cover di vecchie canzoni di successo (Che cosa c’è di Gino Paoli nella versione di Giuliano Palma and the BlueBeaters, Amore disperato di Nada cantata dai Super B, eccetera).
Appare di colpo chiaro che la questione etico-sociale altro non è che il sintomo di tematiche più private – ma altrettanto politiche – quali la nostalgia e il rinnovamento: il desiderio cioè di trasformare ciò che si è diventati in ciò che si crede di essere stati un tempo e si vorrebbe essere ancora.

Ecco allora che anche la sete di dominio, perpetrata dalla padrona attraverso il ricatto salariale, si traduce nell’egoismo infantile di ciò che non si può più avere: essere amati (la costante pulsione sessuale della donna verso Frank), incarnare ancora dei valori (l’ostentata democraticità nei rapporti con la servitù), ritornare giovani (“Hilda era bella come il lago vicino al quale sono cresciuta”).
In periodo di primarie del PD, in cui “rottamazione” è stata la parola più usata, non può passare inosservato che Martinelli ci proponga proprio un j’accuse a una sinistra ormai snaturata e geneticamente modificata dall’interno.
Valeva dunque la pena di far emergere tutta l’attualità della questione e donare nuova linfa a un testo a tratti un po’ prolisso, che sembra ricavare la sua dialettica da un dibattito anni Settanta; eppure la regia – pulita e rispettosa al limite dell’accondiscendenza – non osa quanto potrebbe.

É vero che la frattura tra l’io nuovo e quello ormai deceduto viene sottolineata dall’inamovibilità degli elementi scenografici, costantemente riutilizzati ma mai sostituiti (cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia), così come è evidente un lavoro simbolico sull’originale e il suo doppio (l’apparizione di Corinne, sorella di Hilda, che la soppianta nel ruolo genitoriale, la padrona che ne diventa l’imitazione posticcia), tuttavia resta l’impressione che si tratti di suggestioni affievolite da una struttura poco dinamica.
Se, a conti fatti, qualche dubbio sull’operazione complessiva rimane, viene però offuscato dall’ottima interpretazione di Federica Fracassi e Alberto Astorri, i quali, con la loro abilità, ci ricordano che talvolta più che la coalizione intera contano i singoli candidati.

Corrado Rovida