History è la storia di tre principesse. Tre principesse che sono come sorelle. È la storia di un trauma nascosto, rannicchiato nelle pieghe del passato. La storia di tre principesse di quindici anni che devono difendere il proprio regno. Per farlo, passano per il sentiero più feroce, per la notte più scura, credendosi invincibili sui loro tre cavalli bianchi. 

Nata a Reykjavík nel 1981, Kristín Eiríksdóttir è artista visiva, performer, poeta romanziera e drammaturga. Insieme a Tyrfingur Tyrfingsson, è una delle punte della nuova drammaturgia islandese. History è il suo secondo testo drammatico, rappresentato al Reykjavík City Theatre nel 2015, e candidato nello stesso anno al premio Gríman (l’equivalente islandese del premio Ubu). Nel 2017 il suo romanzo Elín, ýmislegt (tradotto in inglese come A fist or a heart ma che letteralmente significa “Elín, varie”) le vale l’Icelandic Literary Prize e nel 2019 l’Icelandic Women’s Literature Prize.

Ogni passaggio di History è un salto indietro nel tempo, in diversi momenti delle vite delle tre protagoniste: Dagny, insegnante di sociologia, Lilja, receptionist e madre single, Begga, disoccupata e senzatetto. Tutte hanno «circa 38 anni». Erano amiche dall’infanzia, un trio inseparabile fino ai primi anni del liceo, prima che i rapporti finissero bruscamente. Dopo diversi anni, Dagny ha pensato che potesse essere una buona idea invitare a casa propria le sue vecchie amiche, per affrontare qualcosa che era rimasto irrisolto. Fin dall’inizio è possibile capire che un fatto drammatico ha interrotto qualcosa. Un avvenimento che, pur se appartenente al passato, si riverbera ancora nel presente delle tre donne. Dagny ha infatti da poco terminato la sua storia con Eyvindur, dopo aver scoperto, nella cronologia del browser (history, in inglese), alcune ricerche relative a una sentenza emessa da un tribunale.

Nel salotto di Dagny, dopo i primi convenevoli e i consueti aggiornamenti sulle proprie vite, le tre donne ripercorrono eventi del loro passato senza soluzione di continuità. Gli episodi infantili sono richiamati ossessivamente, quale chiara espressione di un rimosso che ora preme per tornare a galla. Fin dalle prime pagine, Dagny fa trasparire questo bisogno: «Actually I thought it might be good for us to discuss, in a way. […] if we could meet and try to…clean up…». Talvolta tali episodi sono richiamati alla memoria, raccontati da ciascuna al passato, come quello in cui Begga ricorda di come Dagny abbia inavvertitamente ucciso il suo piccolo pappagallo (oppure no? – una didascalia successiva indica che Dagny, in piedi nel proprio salotto, stacca a morsi la testa di un pappagallo, masticandola  a lungo: un’azione performativa mostra sotto un’altra luce l’episodio appena rievocato). Altre volte invece le tre donne si ritrovano schizofrenicamente a rivivere episodi del passato: con una virata improvvisa ci si ritrova indietro nel tempo, ed ecco Lilja che cerca di convincere Begga a marinare la scuola, o Dagny che grida a Begga di restituirle il suo bambolotto del principe Lovely Locks.

foto: Lady Lovely Locks and Prince Strongheart © tutti i diritti riservati a Big-Eyed, Flickr.

Tutte le protagoniste sono rimaste sconvolte da un evento passato che le ha segnate irrimediabilmente, che le tiene legate a un dolore inestirpabile. Tutte soffrono di sindromi nervose, di disturbi d’ansia, fanno uso di droghe o di antidepressivi, si sentono sbagliate nel proprio corpo, che disprezzano infinitamente. In un passaggio Lilja rivive un momento del passato per incontrare il suo amore liceale non corrisposto – una delle cause dell’evento traumatico – ed è lacerante il modo in cui immagina di farsi ripetere sempre più nel dettaglio tutto quello che in lei, nel suo corpo, non va bene: 

LILJA – But why do you rather want to be with her than me?

SALTY PETE – You really like, wanna know?

LILJA – Yes…

SALTY PETE – Okay, just because she’s just… Hotter than you…

LILJA – But can you explain that in a bit more detail?

SALTY PETE Uh, how? Just, she always smells good and then she has bigger

tits and just has better proportions than you.

LILJA – But can you still explain that a little bit better…

[…]

SALTY PETE – Okay, you’re the kind of chick you totally fuck when you’re

drunk but not the kind you start going out with.

LILJA – Do I smell bad?

SALTY PETE – Not exactly bad but really not good either. In a way you’re

kind of like that, kind of neither nor…

LILJA – How? Can you be a little more specific?

SALTY PETE – Well… You also used your teeth so much. It just really

wasn’t that great being with you to tell you the truth.

LILJA – So I hurt you?

SALTY PETE – Yeah, kind of and then you were just a bit too clingy

afterwards. And had bad breath. And then you have rather bad

skin.

LILJA – How? When we kissed?

SALTY PETE – Yes, when we kissed and also when you were blowing me.

LILJA – Bad skin, how?

SALTY PETE – Not pimples maybe but totally blackheads and dry spots and

just the texture is just scaly somehow.

LILJA – Okay, but can you explain the skin thing better?

SALTY PETE – Okay, wait, how can I… Your skin is like a bit loose and

maybe it’s not the skin that’s the problem but what’s under

the skin. Maybe you just need muscles, you’re so floppy

somehow.

LILJA – How? Can you explain that a bit better?

Il rifiuto, il giudizio altrui, lo stigma sono entrati nelle vite delle tre ragazzine sconvolgendole completamente. Provenienti da famiglie difficili (madri problematiche, padri non pervenuti), si sono ritrovate emarginate dai compagni di scuola, prese in giro, chiamate “puttane” soltanto perché una di loro – Lilja – era andata a letto con un ragazzo. E quel ragazzo, poi, le aveva preferito Nanna, che metteva in giro brutte voci su Lilja e le sue amiche. Salty Pete, con la sua scelta, aveva cacciato Lilja e le altre nel punto più basso della piramide sociale.
Ma tre principesse non se la possono prendere con il principe. È necessaria un’altra vittima. Nanna.

Nel testo di History, i dialoghi sono spesso interrotti da alcuni diversivi, che non solo conferiscono vivacità spezzando il ritmo, ma costituiscono snodi simbolici fondamentali. Dapprima, i video. Alcune didascalie indicano che in certi momenti la scena diventa buia e brevi video sono proiettati su uno schermo: la cameretta di una ragazzina, tre cavalli al galoppo, alcuni cristalli splendenti, lucertole in movimento, e infine di nuovo la cameretta. Ciascuno di essi richiama simbolicamente episodi narrati dalle tre donne. Diversi interventi sono inoltre consegnati alla musica: i testi delle canzoni sono scritti, inseriti nel testo drammatico – uno fra tutti il lubrico testo di Panty Lies dei Sonic Youth:

Un estratto del testo

L’elemento “intrusivo” principale è però quello della fiaba. Molte storie sono raccontate nel corso del testo, e ciascuna di esse testimonia il degenerare di un mondo che si voleva fatato e che non lo è affatto. Ognuna è una favola nera, senza alcun lieto fine. E così, attraverso la fiaba, usata come uno scudo psichico, si viene a poco a poco a conoscenza dell’episodio attorno cui ha ruotato la vita delle tre donne. Dapprima attraverso un’evocazione metaforica: Begga racconta la storia di tre sorelle e dei loro cavalli che, improvvisamente e senza una ragione, decidono di uccidere. Sarà Dagny, l’unica di loro che sta cercando di affrontare il proprio rimosso attraverso un percorso psicoanalitico, a raccontare quanto accaduto quella notte:

DAGNY – Let’s say Lilja. That me and you and Begga go downtown now

and we were a little bit out of it you know, and mad at this

girl who just started seeing your boyfriend because she’s

been saying things about you. Let’s say that we were fifteen.

That we’d been best friends since first grade. That we were

kind of like sisters.

Let’s say that as soon as we came downtown we met her and she

was alone, as out of it as we were and she’d lost her friends

and her jacket and when we saw her we didn’t see a little

girl but we saw… a dragon. A dragon that we had to fight.

Let’s say that we pulled her behind the parliament house.

That we pushed her to the ground. That one of us was wearing

steel toe boots. And that none of us remembered exactly what

happened. That no one knew who pulled her hair exactly when or who twisted what arm or kicked again and again and again and

couldn’t stop kicking. That the sun never set that night because it was in june.

Eppure la rievocazione dell’episodio non porta a nessuna soluzione. Ciascuna incolpa l’altra di aver fatto precipitare la situazione. Nessuna riesce a uscire dalla propria condizione: come le principesse tenute prigioniere in una torre e separate dal mondo da un fossato pieno di coccodrilli. E se c’è una scappatoia, questa dura solo il tempo di una notte. Il tempo del racconto di un’illusione, che svanisce al mattino.

Il testo di Eiríksdóttir è potente e attrae il lettore come una calamita. Nonostante affronti un tema (uno e abbastanza univoco per tutta la pièce) non particolarmente originale – il disagio psichico e le relative conseguenze che si manifestano in comportamenti violenti – l’articolarsi delle battute, le ellissi temporali, gli squarci metaforici e gli inserti extra-drammatici rendono History un testo ben costruito e avvincente, non senza alcuni rimandi a Escaped, alone di Caryl Churchill (una chiacchierata tra sole donne, in bilico tra discorsi futili e rievocazione di eventi terribili). Certo, il procedimento drammaturgico scelto – quello in cui il fatto evocato lungo tutto il testo viene svelato alla fine – dà luogo a una struttura conosciuta, forse scontata, ma in questo caso ben eseguita. Appesantiscono l’atmosfera alcune battute troppo esplicative, didascaliche, talvolta forzatamente psicanalitiche. Tali passaggi potrebbero essere sfrangiati da una messa in scena che scelga di dare spazio alla parte più immaginifica, metaforica, quasi cinematografica, ben presente in History.

Che cosa succederebbe se le protagoniste potessero significare con gli oggetti quello che esprimono a parole? C’è un passaggio nel testo in cui Begga svela a Lilja che era stata Dagny a bruciarle il suo amato giocattolo, la rana Kermit, a «grigliarlo come fosse un hot dog». Se quella violenza venisse davvero inflitta ai giochi presenti sulla scena? Forse il rapporto tra le protagoniste e il loro passato sarebbe ancora più diretto, non mediato. Sperimentando l’inserimento di immagini e di altri espedienti visuali, si potrebbe rendere più eterea la parola e ancor più magica e inquietante la prigione dell’infanzia. 

Francesca Di Fazio

foto di copertina: Varvara Lozenko


Il testo in traduzione inglese, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto con una mail a [email protected].