Horizon
MANFREDI PEREGO
La luce calda di un faro trafigge la scena vuota della Sala Fassbinder. Sul palcoscenico, Manfredi Perego si muove sospeso in questa feritoia luminosa, il corpo racchiuso su se stesso a contenere la tensione, nel tentativo di raggiungere un confine invisibile. Lo sguardo alto, rivolto sempre “più in là”, verso la conquista di un territorio che avviene per piccoli passi circolari, verso il limitare di quella linea inesistente che comunemente chiamiamo orizzonte.
È un confine, quello dell’orizzonte, che siamo abituati a conoscere solo come convenzione, ma che il danzatore riesce a incidere col corpo all’interno dello spazio vuoto della sala con precisione quasi chirurgica in un ipnotico e trasportante cortocircuito del gesto. Ora i movimenti vorticano in una fluidità assoluta, ora più piccoli e concisi contengono la vibrazione del desiderio nel tempo indefinito di un’attesa, ora sono fitti tremiti di spasmo che infine riemergono nell’estensione massima della loro scorrevolezza.
Inciso nello spazio, l’orizzonte è per un attimo abitato. Il corpo, sorpreso nel pieno di un equilibrio raggiunto con millimetrica cura, diventa zenit, punto di raccordo fra verticalità e orizzontalità, fino ad aprirsi su una dimensione altra: quella dell’Altrove. Il tempo si dilata e si fa durata: le pareti nere della Fassbinder esistono in uno spazio che non è più solo quello fisico. È il nodo centrale di tutto lo spettacolo, sospensione nevralgica che dà respiro all’intera performance: qui si sazia l’inesprimibile desiderio umano di con-fondersi al di là del percepibile e dell’esistente. Ma, improvvisamente, il danzatore cade a terra. Il corpo non arretra, ma è ributtato nella dimensione più terrestre ed orizzontale, traslocato, per così dire, in un inaspettato nadir. Non c’è però cedimento e Perego continua la danza a terra, in un anelito frenetico verso ciò che ha perso e che rivuole indietro; scosso da uno spasmo di desiderio per quella vertigine sfiorata ed immediatamente inghiottita.
La verticalità abbandonata è infine, faticosamente, riconquistata. Il corpo si afferma nella sua dimensione “originale”, e riprende a ripetere i passi con cui si era aperta la coreografia. Il ciclo comincia daccapo rinnovando questa metafora corporea dell’insaziabile tensione all’infinito dell’essere umano.
Manfredi Perego è un indagatore di mondi impossibili, di linee inesistenti, di spazi convenzionali che ci abitano ma che non riusciamo mai ad abitare. E nella sua indagine, sospesa e tenace, si fa creatore di questi luoghi indicibili, che sono territori interiori dove – anche per lo spettatore – è finalmente possibile sconfinare.
Matteo Mauri