Era il 1933 quando il Teatro dell’Arte, progettato dall’architetto Giovanni Muzio, apriva le sue porte assieme al Palazzo dell’Arte di cui era parte integrante. Uno spazio pensato per ospitare rappresentazioni di arte sperimentale, riunioni, conferenze e proiezioni cinematografiche legate alle Triennali di architettura e arti decorative. Oggi la memoria di questo teatro è per tutti legata al CRT di Sisto Dalla Palma, che lo ha avuto in gestione dal 1985 al 2010, quando era stato annunciato il suo ricongiungimento alla struttura culturale di appartenenza. Questo voleva dire ripristinare il suo stato originario, sia dal punto di vista architettonico (rispettando il progetto di Muzio) sia da quello della programmazione. Al sottoutilizzo di questo spazio negli ultimi tre anni – determinato anche dai necessari lavori di ristrutturazione affidati all’architetto De Lucchi – si è aggiunto l’annuncio della sospensione delle attività del CRT, ritiratosi nel frattempo nel Salone di via Dini e rimasto orfano del suo padre fondatore.

Oggi, tra speranze e qualche polemica, inizia un nuovo percorso per il Teatro dell’Arte legato alla nascita della nuova Fondazione CRT Milano – che riunisce il CRT Centro di Ricerca per il Teatro e il CRT Artificio, entrambi già parte dell’esperienza teatrale avviata nel 1974 – in una “convergenza di idee” con la Triennale. A una riapertura si accompagna la necessaria ricerca di un’identità capace di non sovrapporsi a quelle già presenti in città e di rendere sostenibile – non solo dal punto di vista economico ma anche culturale – la propria attività.

L’orientamento da questo punto di vista era stato annunciato chiaramente già prima dell’estate. L’anteprima di luglio, che vedeva coinvolti in una stessa serata tre artisti diversi in altrettanti spazi del teatro, dichiarava l’intenzione di creare un progetto culturale unico rispetto alle altre realtà milanesi aprendo verso l’interdisciplinarietà: un “crossover tra le arti del progetto e quelle performative”, un “luogo dell’incontro creativo tra teatro, musica e danza con arti applicate, architettura e design”, “una fucina aperta allo scambio e alla collaborazione creativa con tutte le istituzioni culturali”. Un modo, tra l’altro, di tornare a legarsi allo spirito che aveva guidato la nascita del teatro negli anni Trenta.

Esemplificativo di questa linea indicata dalla direzione artistica è il progetto Housemates che, dopo l’apertura-evento che ha portato a Milano a sorpresa L’Ultimo nastro di Krapp di Bob Wilson, ha segnato l’inizio della programmazione. Si tratta di un cohousing teatrale che attraverserà tutta la stagione e porterà in scena, nella stessa serata, 3 compagnie in altrettanti spazi del teatro. Un format analogo a quello dell’anteprima e che si avvicina a quello museale, aprendo il dialogo tra il Teatro e la Triennale: le performance sono ospitate in “sale” collocate nei diversi ambiti nel teatro, come fossero, appunto, stanze di una casa-(teatro)-museo. Efficace a questo proposito è il logo che rappresenta il progetto e che torna come icona sul “foglio di sala” alias guida alla mostra: la pianta frammentata come in un puzzle, in cui si anneriscono le sale dove si trova l’opera che si sta visitando, in un percorso itinerante. Le compagnie invitate a prendere parte alla co-abitazione sono tra le voci più innovative del teatro di ricerca italiano. Gruppi abituati a parlare con il corpo più che con la parola, sperimentando nuovi linguaggi performativi e sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie digitali e dall’immagine elettronica. Al primo appuntamento (23 ottobre-3 novembre) hanno preso parte Gruppo Nanou, Santasangre e Quiet Ensemble. Tre spettacoli di 35 minuti cadauno tra foyer, retropalco e sala teatrale.

Sport di Nanou ha già girato diversi teatri e festival italiani, ed è stato presentato due anni fa in forma di studio al Pim Off di Milano. La performance si sofferma sul tempo del riscaldamento di un’atleta, sulle pause determinate dalle prove, sulla tensione del corpo, sui fermo immagine di esercizi immortalati come in istantanee da linee di luce che trafiggono il movimento. All’azione della performer si aggiungono le luci che dialogano con i movimenti scandendo i diversi “quadri” dello spettacolo e i suoni che, riproducendo l’eco di una palestra, evocano l’ambiente in cui si svolge l’azione.
L’interazione tra dimensione corporea, visuale e sonora guida in modo ancora più deciso Konya dei Santasangre: un’esibizione audio-visiva che restituisce una versione contemporanea della danza dei Dervisci Rotanti, discepoli dell’ordine sufico fondato proprio a Konya, l’antica capitale dei turchi selgiuchidi. La performer dà corpo a un rito laico sulla base della danza sacra guidata dalla rotazione, dalla circolarità, tra giravolte e slanci mistici che nella tradizione Sufi rappresentano un annullamento delle barriere tra l’individuo e la divinità.
Il corpo è assente invece nel lavoro di Quiet Ensemble. Der Teufel leise, Faust è una performance agita dalle apparecchiature di una scena inanimata, tra luci, suoni, movimenti di strumentazioni sceniche che mettono a nudo lo spazio del teatro. Come si legge nelle note dello spettacolo, “l’assenza dell’anima viene rappresentata dalla carcassa dello spazio ormai svuotata dalla propria umanità”.

A margine di un progetto di cohousing teatrale di per se interessante e innovativo nei contenuti e nella forma e al di là del valore delle singole esperienze artistiche – già ben note al pubblico che frequenta i festival, forse più insolite per le platee milanesi – resta forse da fare una più ampia riflessione sui linguaggi per molti aspetti ermetici delle compagnie di ricerca selezionate, che sembrano consacrare una vera e propria vocazione all’effetto visivo. Quasi che l’innovazione e la sperimentazione debbano andare in senso contrario e opposto alla presenza di una più corposa drammaturgia e alla capacità di includere e coinvolgere un pubblico ampio e non solo di addetti ai lavori.

Nei 35 minuti di performance, oltre la constatazione della bravura dei performer, della perfezione del light design e dei veri e propri paesaggi sonori che fanno da sfondo agli spettacoli, spesso si fatica a individuare una struttura drammaturgica che richieda attenzione dall’inizio alla fine e resta la sensazione di una qualche incompiutezza, di uno studio che fatica a divenire opera completa. In alcuni casi si tratta forse di spettacoli che sarebbe meglio fruire in modo itinerante, senza essere obbligati alle poltrone e ad un tempo stabilito ma – come spesso avviene in esperienze artistiche di installazione – concedendo allo spettatore una visita libera. Ben venga l’apertura alla contaminazione dei codici, alle arti performative che vadano oltre il più tradizionale teatro, a una nuova identità che si allontani da quelle già presenti in città. L’apertura a linguaggi artistici più vari (lasciata forse nelle mani dei prossimi housemates: Masque Teatro, Mali Weil e Opera sono in scena fino al 17 novembre e ci sarà spazio per altri nella seconda parte della stagione) aiuterebbe però un dialogo con un pubblico più eterogeneo, che non sia solo quello degli addetti ai lavori.

 

Francesca Serrazanetti