Quando alle sei di sera Douglas Dunn mi apre le porte del suo loft, l’appartamento-studio nel cuore di SoHo dove vive e lavora dal 1968, dalle vetrate, che pure danno a est, entra ancora una luce inaspettata. Ci circondano molte piante, la gatta Tika e, naturalmente, un immenso spazio vuoto ricoperto di parquet; sui tavoli, pile di libri. Douglas macina le parole a una velocità inaudita, un po’ come faccio io quando parlo in italiano, e per stargli dietro fatico come se stessi correndo i chilometri, mentre in realtà sono seduta comoda a un paio di metri da lui. Più volte nominiamo Anita, l’amica che da Pisa ha unito le nostre strade e che ha fatto sì che io sia qui mentre lui racconta: della sua infanzia californiana, degli anni del college da studente di storia dell’arte, dell’avvicinamento alla danza nei primi anni Settanta, della sua compagnia, Douglas Dunn + Dancers, di quest’ultimo anno. Mentre mi parla, non faccio che pensare a quanti regali possono fare le differenze sulla carta d’identità.
Quando, più o meno un anno fa, stava per iniziare la pandemia, cosa stavi facendo?
Stavo per presentare un libro nel mio loft, e avevo anche preparato un pezzo di mezz’ora per nove danzatori della mia compagnia, me compreso. Lo spettacolo sarebbe cominciato con un centinaio di vecchie scarpe sparpagliate sul pavimento dello studio. Il giorno prima alcuni amici invitati mi hanno chiamato dicendo che i media stavano mettendo in guardia a proposito della trasmissione del virus per contatto; altri mi dicevano che si sarebbero sentiti in imbarazzo a sedere tra il pubblico indossando una mascherina. Ho cancellato l’evento. E così eccomi qui, come il capitano di una nave che senza preavviso si incaglia; i marinai-ballerini saltano in mare, e nuotano nelle loro vite individuali. Io sono sul ponte da solo, a chiedermi che cosa sono, senza questi compagni che condividono il mio interesse per questa cinetica bipede non narrativa.
Se ti parlo di «assenza del corpo», tu, come danzatore, come reagisci?
Immediatamente penso all’assenza di spettatori in questi mesi. Noi danzatori abbiamo bisogno di stare davanti al nostro pubblico. Abbiamo poche opzioni e certamente meno di quelle che hanno gli scrittori, che possono giocare come vogliono con l’ironia, con la metafora, e così colmare l’invidiabile distanza che li separa dai lettori. Il nostro spettro di possibilità come danzatori è invece limitato: possiamo far sì che lo spettatore veda, soprattutto e prima di tutto, noi, i danzatori, o veda prima di tutto la danza stessa. Il famoso verso di Yeats che suggerisce che la differenza tra il danzatore e la danza non è percepibile [O body swayed to music, O brightening glance, / How can we know the dancer from the dance?, da Among School Children, in W.B. Yeats, The Poems of W. B. Yeats: A New Edition, (edited by Richard J. Finneran) Macmillan Publishing Company, 1933 (ndr.)] è allettante, ma non è vero. Prestare attenzione ai diversi atteggiamenti con cui ogni danzatore rivela il proprio rapporto con i movimenti che sta eseguendo, è uno dei sottili piaceri della visione della danza.
Sei in contatto coi tuoi danzatori?
Con alcuni di loro ci siamo sentiti per mail. Quando lavoriamo insieme, il nostro rapporto è del tutto pratico, certo amichevole, ma non intimo. Senza le formalità delle prove, le nostre conversazioni sono diventate più personali: è emersa in modo diverso la cura degli uni per gli altri, che quando siamo fisicamente insieme c’è, ma non è esplicita, né diretta a dettagli della nostra vita privata. E così abbiamo cominciato a conoscere nuovi aspetti di noi. Di solito, è la loro presenza fisica, e ciò che essa irradia, ad animare le mie coreografie – non i particolari delle loro vite personali. È il nostro muoverci insieme a confermare l’esistenza del mio corpo e ad animare il mio desiderio di muovere nuovi passi. Sarà interessante capire se l’atmosfera sarà cambiata, quando e se torneremo a lavorare insieme. Di certo, dopo tutto questo, il mio corpo e la mia mente si sono come contratti.
In questa contrazione che parte ha l’assenza del pubblico?
In generale, in una situazione di normalità, mi sono sempre sforzato di non pensare a quale tipo di danza gli altri vorrebbero che io facessi. I miei lavori sono ambigui: non dicono mai allo spettatore cosa deve pensare, o provare. Nel tentativo di proporre un’alternativa all’industria dell’intrattenimento, la mia danza non vuole ingraziarsi nessuno. Lavoro in una torre d’avorio, nel senso che non devo rispondere alle aspettative di nessuno! Eppure è così vero quel cliché che dice che capiamo l’importanza di ciò che avevamo quando non ce l’abbiamo più. Danzare davanti agli occhi degli altri, per quanto possa essere un’operazione opaca, mi aiuta a completarmi. L’assenza di pubblico mi fa riflettere: il non poter danzare di fronte ai corpi degli spettatori sta minacciando la mia storia d’amore con Tersicore?
Hai cercato di mantenere un rapporto coi tuoi danzatori utilizzando qualche piattaforma di comunicazione virtuale?
Tutta la mia vita è stata costruita di relazioni con persone e cose tridimensionali, inserite nello spazio che occupano. All’inizio succedeva grazie al lavoro di manodopera che facevo con mio padre: il martello, la sega, la pala. Poi l’atletica: la palla, la racchetta, il remo. Infine, la danza. Alcune cose sono sparite, lo spazio ha assunto un nuovo significato, e si è fatto eco del vasto parco giochi dei miei giorni più giovani: quando ero bambino, con la mia famiglia vivevamo su una collina accanto a duemila acri di terreno aperto. Non c’erano compagni di gioco nelle vicinanze. Mi divertivo ad arrampicarmi sugli alberi, a inseguire le allodole sulle colline, a guardare le nuvole alla deriva e a inventare giochi solitari per migliorare velocità, agilità e coordinazione. La danza, che mi ha portato a includere altri corpi nel mio lavoro, è una versione adulta della mia iniziazione più solitaria e animalesca. Se pensi che questo è il mondo da cui vengo, un mondo così radicato alla terra e al corpo, capisci che Zoom per me non è solo difficile, è un anatema. Ho provato a insegnare Tecnica su Zoom, ma senza i danzatori nella stanza ho perso interesse. Per la New York University, invece, ho tenuto il mio corso annuale di Open Structures, ma se ha avuto successo è tutto merito degli studenti: nelle loro case, sparse per il mondo, non vedevano l’ora di trarre il massimo anche da quest’esperienza. Nel loft, poi, ho realizzato un video che ho caricato su Vimeo: si intitola En Dehors, ed è fatto da una sequenza di fermi-immagine presi sulla porta che separa il mio appartamento dallo studio in cui danzo. Ora sto lavorando a un secondo video, che si chiama Nothing is Enough: è una danza breve, e il risultato è potenziato dall’uso degli strumenti del video, i miei movimenti sono manipolati, sdoppiati… Però sto ancora aspettando di tornare al lavoro, quello più significativo.
E mentre aspetti, cosa fai?
Fin da quando ho cominciato a fare danza, dal 1971, il mio senso del tempo si organizza intorno ai progetti di danza futuri, ai tentativi di continuare a farla la danza, di portarla avanti. Tutti i pensieri e i sentimenti si magnetizzano verso un “centro intuitivo”, e finiscono per diventare nuovi passi, movimenti nello spazio. Tutti i compiti quotidiani mantengono un posto subordinato, e fanno da sfondo e introduzione ai momenti di invenzione cinetica. Ora, senza uno spettacolo di danza a cui lavorare, senza una performance futura già prevista, che riempia il mio presente tendendo a quel momento, la struttura che reggeva tutto è crollata, lasciandomi in un mare di uniformità sparsa. Cosa è importante, e cosa no? Ci sono eventi paralleli – le notizie dal mondo, le spese, pulire, leggere, lavorare all’archivio della compagnia – che competono per prendersi il palco principale, ma nessuno ha il potere di chiamare a sé le mie risorse più profonde, nessuno offre la soddisfazione – o il ricordo di quella soddisfazione – di essere in studio a decidere cosa verrà dopo, o di essere sul palco a danzare. La mia più forte presa sulla danza, al momento, è il mio allenamento quotidiano…
L’isolamento lo ha cambiato?
Non avendo da preoccuparmi della presenza di altri ballerini, ho potuto affrontare quelle che ho sempre saputo essere le debolezze nella mia tecnica. Con mia gioia inaspettata (non è mai troppo tardi!) il graduale cambiamento del mio fisico mi ha rivelato ancora una volta quanto psiche e corpo siano inestricabilmente connessi, e ha regalato nuove fioriture primaverili al mio stato d’animo.
Virginia Magnaghi
foto di copertina: ©Paula Court