I am Beautiful è iniziato ormai da qualche manciata di minuti. Le pulsazioni martellanti della musica tribale che ha scandito i movimenti terrosi e animaleschi dei danzatori fino a questo momento cessano di colpo, e il registro cambia in un contrasto straniante. Sulle note dello Stabat mater di Pergolesi una luce blu fluorescente avvolge il palcoscenico vuoto, e sulla platea cala un’atmosfera sospesa, tesa a contemplare, in silenzio, la cascata di filamenti che pendono dall’alto della scenografia fino a toccare terra, in un semicerchio che evoca l’abside di una cattedrale senza altare né panche.
La mancanza di danzatori sul palcoscenico non è una semplice pausa, un cambio costume ben strutturato, ma un momento determinante:  è proprio questo intervallo  che permette allo spettatore di staccarsi dal ritmo incalzante tenuto finora e riprendere fiato. Un tempo diverso che rigenera la scena, restituendole un nuovo, profondo valore. Finalmente, ad uno ad uno, i danzatori compaiono ad abitare questo spazio sacro, che si definisce come tempio dell’incontro umano.  Prendendosi delicatamente per mano, come in un padre nostro silenzioso, professano una religione totalmente terrena, orizzontale come la linea che formano coi loro corpi e che emerge per contrasto nella verticalità della scenografia.
Da questa dinamicità di pose e geometrie sorge, improvvisa, una sintesi armonica che supera e insieme abbraccia l’individualità di ciascun corpo. È una religione senza sciamani quella di Zappalà, una chiesa senza gerarchia, ma non senza dio: è il corpo stesso che viene divinizzato e messo in evidenza in tutta la sua plastica bellezza. Celebrazione del suo essere, del suo esprimersi, del suo movimento.

Miriam Gaudio

I am Beautiful
regia e coreografia Roberto Zappalà
produzione Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza – Centro di Produzione della Danza
Visto a MilanOltre il 3 ottobre 2017

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView