di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni
con Michele Abbondanza
visto al Pim Off di Milano _ 14-16 novembre 2015

Un percorso dedicato alla propria memoria. Un corpo capace di raccontarla.
Per la prima volta solo in scena, Michele Abbondanza si concede lo spazio di una confessione a bassa voce, senza enfasi. Come se, dopo anni di insegnamento, di regie, di progetti collettivi, fosse arrivato il momento di dedicare soltanto a sé quell’attenzione per tanto tempo riservata ad altri.

Ne emerge una partitura polifonica, sia in termini di registri che di linguaggi: si passa dai versi di Petrarca alle provocazioni degli Skiantos (“siete un pubblico di merda / applaudite per inerzia!”), dalla coreografia pura alla parola, dal kitsch al minimalismo. Il risultato è volutamente disorganico, frammentario, come lo sarebbe un diario privato letto in pubblico. Ma accanto alla storia personale – sfocata e rarefatta come in un sogno – lo spettatore avvertito può riconoscere tributi alla danza d’autore degli scorsi decenni: in uno dei brani più intensi dello spettacolo, Abbondanza indossa un vestito bianco femminile à la Café Müller, e molti sono gli omaggi alla maestra Carolyn Carlson e alla coreografia americana (anche nei suoi aspetti più pop). Non mancano riferimenti al panorama nostrano e ai compagni di strada che, presenti come proiezione sullo schermo in fondo palco, rappresentano il bagaglio affettivo e artistico dell’interprete. Un irresistibile vintage RAI del 1985, firmato Sosta Palmizi, restituisce degli irriconoscibili Michele Abbondanza, Raffaella Giordano, Roberto Castello. Gli occhi del giovane Michele, immortalati e ingranditi, guardano inquisitori il Michele di oggi, forse a chiedergli conto dei sogni di allora. E ancora: la compagna di una vita, Antonella Bertoni, danza nelle sfuggenti lontananze del digitale, mentre Michele in carne ossa offre al pubblico il suo essere solo, qui ed ora, danzando le tracce di quell’assenza (impossibile non pensare qui al precedente Esecuzioni. Duo d’assoli).

Nella densità di echi e tracce, nel consapevole rifiuto di una struttura spettacolare lineare, nella scelta di allusività e incompiutezza, il rischio è che lo spettatore meno avvertito si smarrisca: certo godrà maggiormente della visione chi conosce almeno un poco il percorso Abbondanza/Bertoni. Non mancano però temi e segni universali, che arrivano diretti alla sensibilità del pubblico. È il caso della fitta trama di icone sacre, presenti fin dall’incipit, capaci di imprimere in ogni immagine il proprio potenziale simbolico (su tutte il telo bianco sul volto del danzatore, sdraiato a terra, che pare divenire una sindone).
E poi c’è il guardarsi indietro, con ironico distacco ma anche con nostalgia, e lo scoprirsi più consapevoli ma anche più stanchi e disincantati: “Perdo il ritmo dello spettacolo”, sussurra Abbondanza, “rimango indietro come un vecchio elefante”.
I dream è un nòstos, quello che per gli antichi greci era il ritorno a casa. Un ritorno a se stessi, dopo molto viaggiare.

Maddalena Giovannelli