Dopo Blue Eyes (2014) e Helgi Comes Apart (2019), I mangiatori di patate (Kartöfluæturnar), del 2017, è il terzo e ultimo testo di Tyrfingur Tyrfingsson presentato su Calapranzi, cui seguirà un’intervista con l’autore che andrà a chiudere il focus dedicato all’Islanda.

I mangiatori di patate è stato allestito al Teatro Comunale di Reykjavik nel 2017, e già nell’autunno del 2018 viene nominato per i Menningarverðlaun DV Cultural Awards islandesi. Nel 2019 viene messo in scena a Parigi, al Théâtre 13. A novembre del 2020 è allestito e trasmesso in streaming dal teatro Dramatyczny di Varsavia e successivamente presentato in Italia, al festival Short Theatre per Panorama Roma, frutto di una collaborazione tra la compagnia Lacasadargilla e Emiliano Masala.
I mangiatori di patate, che segue cronologicamente Blue Eyes e precede Helgi Comes Apart, costituisce il terzo pezzo di un puzzle sulla natura antieroica e oscura dei rapporti umani.
Come negli altri due testi, Tyrfingsson si concentra su queste relazioni specialmente in seno alle famiglie, luoghi bui e torbidi in cui le anime si sviluppano contorte, si spezzano, si cicatrizzano male e vanno avanti nella sopravvivenza, senza mai sanare completamente le ferite inflitte da un ecosistema avvelenato dal silenzio e dai segreti taciuti, riposti negli angoli, sotto i tappeti, negli scantinati.
In questo caso le dinamiche familiari abbracciano tre generazioni e non prevedono per forza rapporti di consanguineità. Infatti, Lísa è un’infermiera di guerra rientrata da poco a casa, e nel suo appartamento passano sì sua figlia Brúna con il giovane nipote Höskuldur, ma anche Mikael, figliastro di Lísa, e la sua ex ragazza Kristìn.
Varie sequenze, tra dialoghi a due e scene corali, provocano in uno stillicidio lento e inesorabile l’emersione di traumi nascosti, da cui si diramano, in una rete sottile ma solida, altri dolori, altre menzogne, altri misfatti, che si concretizzano per i personaggi nell’incapacità di realizzarsi, di perseguire l’ideale di una vita neanche felice, ma solo decente.

The Potato Eaters, The Reykjavík City Theatre, 2017

Lísa è un personaggio pubblico o comunque rinomato in città, sia per il suo lavoro durante le guerre in Jugoslavia sia per la sua militanza nel movimento femminista. La figlia Brúna, autista di autobus, si presenta alla sua porta per affidarle il nipote, così da poter sottoporsi a una misteriosa visita medica. Mentre Lísa e Höskuldur sono soli, irrompe Mikael, il figliastro di Lísa – e fratellastro di Brúna. Mikael chiede l’intervento di Lísa per una questione decisamente scorretta: la sua ragazza lo accusa di stupro e lui pretende che Lísa, , le parli per tentare di dissuaderla dal denunciare. Da qui in poi si apre una sequenza di dialoghi in cui lentamente emerge il tema della colpa e dell’espiazione, di una condanna che grava sulle generazioni e ha radici profonde, come un veleno a lento rilascio per cui non esiste antidoto, protetto dal segreto e dalla connivenza di tutti.
Fin dall’inizio tutto appare guastato per sempre nel destino di questi personaggi. Il set è la casa di Lísa. È un campo di battaglia: mancano le pareti del bagno, il gabinetto e la vasca sono esposti agli occhi del pubblico, cartone e ciarpame ovunque, le porte sono fissate in modo grossolano ai muri di cartongesso, e tutto ha un’aria sporca, transitoria, rovinata. In questo ambiente destrutturato appaiono due elementi stranianti. La stanza è invasa da mucchi di capelli umani che Lísa pettina e accarezza quando è da sola e che si affretta a nascondere quando arriva Brúna. Inoltre, in bella vista, è appesa un’ascia rossa. L’ascia e i capelli appaiono prima che l’azione cominci e rimangono tutto il tempo del dramma come un enigma: i capelli come l’indizio di un delitto e l’arma in attesa di essere usata.

Fin da subito tutto è rotto: Brúna da piccola è stata abbandonata dalla madre (volata in Kosovo a curare altri bambini) e ora soffre di una strana patologia che le procura bruciori sulla pelle (nessun medico riesce a formulare una diagnosi), suo figlio è un adolescente strano, chiuso, assertivo, crudele, mentre Mikael è un uomo che da giovane è stato bello e ora è un alcolista accusato di stupro. In mezzo a loro si muove Lísa, infermiera, madre, nonna, amante, vitale nelle sue espressioni, netta, seduttiva, a tratti disgustosa e miserabile.
Anche i dialoghi sono spezzati, le frasi che i personaggi si rivolgono sono pasticciate, talvolta trasognate e comunque sempre allusive. Nello stile che caratterizza questo autore, le parole dipingono personalità esplose, hanno toni grotteschi, sono crude e politicamente scorrette.
Durante il colloquio con Kristìn, nel tentativo di convincerla a non denunciare Mikael e prima di passare a un momento esplicitamente seduttivo, Lísa si dilunga e racconta alla ragazza dei suoi genitori, mettendo a tema per la prima volta nel corso del testo il titolo dell’opera.

Kristìn: Cioè, io ho subito un trauma, papà vuole chiudere Mikki in galera per quattro anni. E gli ci vorrà tutta la vita per pagare il risarcimento, a Mikki, quindi resterà in prigione per sempre.

Lísa: Una prigione a vita?

Kristìn: Sì, perché ci sarò dentro anch’io. Mi sento proprio come un palloncino che mi fluttua sopra la testa. Papà dice: ecco perché abbiamo le leggi, nel nostro paese.

Lísa: Anch’io avevo un papà tanto buono, come il tuo. Ma molto rigido con se stesso, la faccia sempre dura.

Kristìn: Anche il mio papà.

Lísa: Finché poi, un fine settimana. Si era innamorato.

Kristìn: Di te?

Lísa: Guarda che non è che siamo tutte uguali, non tutte speriamo che il paparino si innamori di noi. No, di un ragazzo giovane. Ma lui se ne fregava, se ne andava in giro tutto fiero come un bambino di cinque anni. Fino alla domenica sera. Quando ha picchiato l’amante, è tornato a casa e ha pianto tra le braccia della mamma. Che gli ha fatto patire la fame fino alla settimana successiva.

Kristìn: Per amore?

Lísa: Ah, ah, ah. No. Papà tornava a casa dal lavoro e doveva cucinare dei gran piatti per noi, mentre lui mangiava solo patate. “Lisa cara, I colpevoli mangiano cibo da colpevoli”, diceva.

Kristìn: Come fai a ricordarti tutte queste cose? Io non mi ricordo niente. Nel mio primo ricordo avevo dieci anni, vidi la scimmia nella gabbia dell’Eden… mi ricordo di aver pensato, ma è solo un pupazzo, non c’è bisogno che stia in gabbia, a meno che non sia per proteggerlo.

Lísa: È così che vogliamo affrontare la cosa?

Kristìn: Poi mi ricordo che continuavano a farmi sempre certi commenti, ogni santo giorno, non sei abbastanza brava per badare ai bambini, no, lo so, lo so che non sono abbastanza brava, non è un mio problema… Kristìn, mettiti i calzini di lana così la smetti di fare tutto quel rumore quando cammini.

Lísa: Il mio primo ricordo è la mamma, da sola a letto per il grasso, le guance ricoperte dalla peluria, che si lagnava per reclamare attenzione. Poi smise di lavarsi. Di notte rimanevo sveglia e le lavavo le mutande di nascosto. Smisi di invitare le amiche a casa dopo che una volta videro il sangue che le colava lungo le gambe fin dentro le scarpe, talmente piene da straripare sul pavimento. E papà di sotto, nel seminterrato a mangiare patate. E così via, come in un ciclo. E non so che cosa piacesse di più a mio papà, la trasgressione o l’espiazione. Per te che cos’è meglio?

Kristìn: L’espiazione.

The Potato Eaters, The Reykjavík City Theatre, 2017

In questo momento la riflessione sulla colpa e sull’espiazione sta per subire un orribile capovolgimento, quando la femminista adulta prova a convincere la ragazza violentata a non sporgere denuncia, accusandola esplicitamente di essere in parte responsabile per quello che le è capitato. Dopo questa agghiacciante affermazione una colomba entra dalla finestra e Lísa, in uno di quei momenti simbolici che sono la cifra dei testi di Tyrfingsson, le schiaccia la testa col tallone. Il sacrificio segna un cambiamento nella strategia di Lísa, ma anche la resa (non definitiva) di Kristìn.
Il dramma procede, di svelamento in svelamento, nelle miserie dei personaggi, fino all’emersione del reale motivo del viaggio di Lísa in Kosovo, ovvero la relazione tra lei e l’allora quindicenne Mikael.
Nel susseguirsi di scene e di repentini cambiamenti di umore, Lísa canticchia, balla, seduce, finge di guidare l’autobus sul divano, lancia le patate che il nipote ha chiesto di mangiare per pranzo, in un crescendo di eccitazione, fino a quando, con l’ascia, sfonda le pareti di cartongesso svelando alla sua famiglia e al pubblico le stanze di Mikael e Brúna da ragazzi, intatte, pulite, intoccate. Le due stanze sono un museo che Lísa pulisce e ordina ogni giorno. I capelli che nasconde sono capelli di bambine serbe, che la donna ha raccolto compulsivamente durante il suo viaggio nel tentativo di replicare sua figlia, la Brúna bambina che si era lasciata alle spalle. Lísa accetta la sua responsabilità nello sviluppo malato di Mikael, espone prima davanti alla figlia e poi su una diretta Facebook la natura della sua colpa. E, magicamente, qualcosa accade. 
Le voci si placano, il ritmo delle scene non è più incalzante.

Brúna: Sei andata in Kosovo.

Lísa: Sì.

Brúna: Non perché i bambini in guerra sono molto più riconoscenti degli ingrati islandesi?

Lísa: No.

Brúna: O perché io sono banale e noiosa?

Lísa: No.

Brúna: Era solo perché ti eri presa una cotta per un ragazzo?

Lísa: E non ero abbastanza grande per farlo.

Brúna: Non ti è stato facile abbandonarmi?

Lísa: No.

Brúna: Sei fuggita.

Lísa: Sì.

Brúna: Ma non avevi intenzione di andartene.

Lísa: Io volevo restare.

Brúna cade in ginocchio davanti a Lísa e urla nel suo ventre con tutto il fiato che ha in gola.

Ne I mangiatori di patate di Van Gogh, le figure riunite intorno al tavolo sono grottesche, sciatte, quasi sgraziate. Hanno volti deformati e mani grandi, nodose. Di spalle, una bambina partecipa alla mensa. Una luce flebile illumina dall’alto la povera tavola dei mangiatori. La vita austera e scarna della classe contadina entra in maniera autentica nella visione pittorica, che non corregge la realtà ma di sicuro la osserva con spirito solidale.

Le figure dipinte da Van Gogh e quel particolare sguardo sono un riferimento diretto per la drammaturgia di Tyrfingsson. Abbandonando il tema sociale, l’autore si concentra sulla miseria interiore, su un livello profondo di disordine psicologico e morale dovuto a una catena della colpa trasmessa di generazione in generazione senza possibilità di scampo. La miseria di questi personaggi si traduce nel caos delle loro vite, in uno spazio scenico destrutturato e esploso, così come nelle parole crude che si rivolgono, nei loro comportamenti grotteschi.
Tuttavia, la debole luce di Van Gogh a un certo punto illumina la tavola a cui sono seduti Lísa, Brúna, Höskuldur e Mikael. Una didascalia sovrappone le due mense in maniera abbastanza precisa. Il caos, la violenza e la rabbia lasciano spazio alla compassione e, dopo la confessione di Lísa, in Brúna e Mikael (anche se questo significherà per lui un processo e il carcere) qualcosa sembra risanarsi. 

Senza lasciare spazio a una buonista fiducia nel futuro, senza risolvere o perdonare la pochezza dei personaggi, sul finale Tyrfingsson sembra guardarli con rispetto, mentre viene messa a fuoco una zona piccola e concreta dell’esistenza: Brúna decide che lei e il figlio torneranno a pranzo da Lísa il giorno dopo, e il giorno dopo ancora.

Tolja Djokovic


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto con una mail a [email protected].