«Da bambina quando vedevo mia nonna rammendare […] le dicevo: “queste lenzuola sono scritte” e lei mi rispondeva “leggile”. Mi inventavo delle storie che mi facevo suggerire dai movimenti dei fili aggrovigliati» (Maria Lai in E. Pontiggia, Maria Lai. Arte e relazione, Ilisso, 2018, p. 151)

Entrare in un teatro stabile in punta di piedi, con le mani appena lavate e la mascherina ben applicata (ma gli occhiali puntualmente appannati) è un’esperienza nuova. Nella cornice del festival Tramedautore 2020, il Piccolo riaccoglie il pubblico senza freddezza, con attenzione. Eppure noi spettatori ci sentiamo subito sul confine fra la vita di prima, di prima del lockdown, e quella di adesso. Non si somigliano per tanti aspetti. E non è una critica. Forse, anzi, è vero quello che dicono in tanti: cioè che la nuova vita è più consapevole, si sente un po’ impoverita ma anche più ricca. L’esempio più lampante, e ovvio, è la condivisione dello spazio della sala. Essere seduti in quattro o cinque in una fila da venti posti non è una cosa così facile da digerire: e i corpi? E l’assemblea? E la partecipazione? E le sensazioni, i brividi, i sussulti, le risate scambiate con impercettibili gesti o cenni d’intesa? D’altro canto, queste erano cose che prima davamo per scontate, a cui eravamo abituati e che a volte potevano anche infastidirci. Ora inconsciamente le rivendichiamo, le cerchiamo in questa vita di poi e ne proteggiamo i minimi segnali: tornare a teatro ci ha responsabilizzati sul nostro “ruolo” di spettatori con diritti e doveri.

Sarà per questo che uno degli spettacoli che ci ha più colpiti, anche se non si trattava di una prima assoluta, è stato Le mille e una notte del giovane collettivo Lidelab. Per tanti motivi, uno su tutti la varietà di linguaggi con cui ci interroga e quindi con cui rimette in gioco e ci ricorda il nostro “status spettatoriale”: dal teatro di prosa al teatro di narrazione, dal game theatre alla performance, usando musiche e video live, puppet, ombre, giochi da tavolo, chat condivise e chi più ne ha più ne metta.

Morte — Il Fuoco nelle mie ossa | foto @Alessia Tagliabue

Questa varietà non è solo sintomo delle molte modalità di ricerca che il collettivo fondato da Silvia Rigon e Lucia Menegazzo è in grado di esplorare (anche attraverso collaborazioni con università e centri culturali), ma trova la propria ragion d’essere e anzi la propria forza nel titolo dello spettacolo e quindi nel tema del raccontare: un raccontare inteso come strategia di sopravvivenza, quella che usa la protagonista e narratrice del capolavoro con cui lo spettacolo dialoga; ma anche come divagazione, come esplorazione continua e negazione di un’unica verità.

Non è un caso che lo stesso spettacolo non finisca. Nel senso che i tre “capitoli” che Lidelab ci presenta, ovvero Morte – Il fuoco nelle mie ossa, Potere – ridere delle disgrazie altrui e Eros – Come si chiama questa?, potrebbero (e dovrebbero) continuare. E neanche qui è finita. Perché, in questo turbinio di iper-, ipo- e para-testi, c’è anche una mostra sui materiali di ricerca, allestita nel chiostro del teatro, che dona spunti ulteriori allo spettatore per immaginare e riflettere sulla mille e due, sulla mille e tre e sulla mille e quattro…

Questa iperproduzione non deve ingannare: nessun esercizio di stile, nessun quadro alla Escher. Piuttosto l’operazione di Lidelab ricorda i libri di Maria Lai, quelli con il testo cucito, che torna textum, tessuto appunto. Materiali altri, altri significati. È il caso di Morte, in cui Shahrazād e sua sorella (l’attrice Barbara Mattavelli e la sound designer Federica Furlani) sostituiscono il passaggio da una storia all’altra con il passaggio da un linguaggio scenico all’altro: hanno bisogno di transitare da una parola fredda, dura, maschile, alla lingua del possibile, a nuove trame. Ombre di carta si susseguono a marionette fantasmagoriche fatte con ossa animali, antichi corpi. L’accento è posto sulla minaccia di morte che incombe su Shahrazād e su tutte le donne del re, in nome delle quali iniziano i racconti delle Mille e una notte: ma stavolta, piuttosto che la sua astuzia, la protagonista non si vergogna di mostrare tutta la sua fatica. Lo sforzo contro la prepotenza maschile la fa vacillare assieme a sua sorella e porta a trasformare il racconto, ad aggrapparsi a nuovi linguaggi, a cucire nuovi fili.

Maria Lai, Le parole imprigionate, 2008

A chi chiede aiuto la Shahrazād di Lidelab? Alle altre donne, quelle che prima di lei si sono ritrovate nella sua stessa situazione. Shahrazād parla la loro lingua e riconnette il racconto di ieri ai racconti di oggi, alle storie dei corpi femminili che hanno preceduto il suo e che hanno fatto i conti con la violenza maschile. La ricerca sulle testimonianze di donne over 70 condotta dalla compagnia, in particolare per lo spettacolo Eros (da cui è nato il libro La terza ora. Racconti da mille e una notte con ragazze over 70, Prospero editore, 2020), si trasforma fin da Morte in un gesto di sorellanza contro gli «occhi appannati» dei re, in un dispositivo che dà senso al racconto e al raccontare. È stato così anche per Maria Lai, che ha imparato l’arte del pane e del cucito a dalle donne di casa della sua infanzia, nel paese sardo di Ulassai. Come il narrare di Shahrazād, insomma, l’atto stesso del tessere nelle opere di Maria Lai non è fine a se stesso, non è orientato al prodotto, ma è già il racconto del tempo delle donne, della loro risposta al tempo, alla povertà, alla solitudine, ai soprusi maschili. I libri cuciti svincolano il linguaggio dalla significazione. E Le mille e una notte di Lidelab scompongono quella significazione, ne moltiplicano i piani. Fra ombre e marionette, persino le ossa prendono vita per dirci che dietro ogni corpo e ogni parola ci sono altri corpi e altre parole.

In Potere la forma è addirittura quella di un gioco da tavola: un gioco di donne arbitrate da uomini, per rimanere fedeli alla raccolta orientale. Tramite l’invenzione istantanea del racconto, astuzia principale per vincere la competizione, quattro ragazze fingono di arrivare dai margini al centro della città, sorvegliate da un sultano che è lì soltanto per noia. Evidentemente le donne sono escluse dalla vera lotta al potere, eppure l’espandersi della narrazione nell’hic et nunc del tavolo di gioco, fra partecipanti non professioniste e pubblico chiamato a intervenire tramite una chat di gruppo, attualizza e ri-trasforma Le mille e una notte in un momento quotidiano, divertente, leggero. Ma non per questo meno pregno di senso. Peccato mancasse, forse, un pizzico di competizione in più fra le concorrenti e un maggiore coinvolgimento del pubblico nel dispositivo ludico.

Eros — Come si chiama questa? | foto @Alessia Tagliabue

Il terzo momento, Eros, è il più performativo. In scena troneggia un enorme groviglio di cannule, ampolle e provette di vetro, mentre ai suoi due lati una performer (Barbara Mattavelli) mescola citazioni de Il giardino profumato, antico manuale arabo sulle pratiche sessuali, con le parole delle donne over 70 intervistate per il progetto. Sul palco c’è anche la sound designer (ancora Federica Furlani) che suona brani di musica elettronica, riutilizzando le parole pronunciate oppure creando nuovi suoni con un vibratore e altri oggetti di piacere. Gli intrecci non si arrestano, dunque, anzi prendono una piega inattesa, quella scientifica, classificatoria, tassonomica. Il linguaggio precettistico del Giardino profumato trova eco nei fiori e nelle piante che vengono inquadrati da una camera e proiettati sullo schermo, per porre la stessa domanda di fondo: come si fa a fissare in un nome una cosa così sfuggente e complessa come la bellezza di un fiore? O come la sessualità?
Creando un cortocircuito fra precetti morali e stereotipi di genere, fra testimonianze documentarie e strumenti del piacere, Lidelab esplora un universo che, anche per pudore, è sempre stato molto maschilista. Questo cortocircuito trova nella bellezza dei fiori e negli esperimenti biochimici immagini archetipiche e ancestrali che non appesantiscono il discorso ma giocano con un’ironia sapiente attorno al tema. Il montaggio di canzoni in live corrisponde a tale proposito e apre a nuovi orizzonti di senso, a una sessualità e una libido da esplorare oltre le barriere culturali e di genere.

Maria Lai, Mondo incandescente, 1988

Il paragone con Maria Lai prosegue sorprendentemente nel passaggio dai libri cuciti ai paesaggi astrali. Sulle tele degli anni Ottanta e Novanta compaiono tracce di atlanti e mappe mescolati ad altre figure, come pesci, oppure a nuovi meridiani o tangenti: linee di un racconto che non vuole essere dettato da una scienza chiusa. Ancora una volta scienza, matematica e linguaggio non sono antagoniste di arte e libertà, non impongono un ordine ma rientrano in un racconto potenzialmente infinito, in cui le mappe del reale si sovrappongono, si incastrano l’una nell’altra. Le geografie di Maria Lai hanno lo stesso filo delle nuove parole dei libri cuciti: un filo femminile, che unisce e apre, senza mai fermarsi. Con paura e coraggio.

Riccardo Corcione


Le mille e una notte
concept, regia, drammaturgia: Silvia Rigon
regia, scenografia, ideazione e realizzazione figure: Lucia Menegazzo
visto al Piccolo teatro Grassi il 16 settembre 2020 in occasione di Tramedautore 2020.

Morte – Il fuoco nelle mie ossa
con Barbara Mattavelli
musicista e sound designer Federica Furlani

Potere – ridere delle disgrazie altrui
game designer Alessio Calabresi e Riccardo Rodolfi
con Bruna Bonanno, Giulia Cermelli, Giorgia Colantuomo, Eliana Rotella

Eros – Come si chiama questa?
con Barbara Mattavelli
musicista e sound designer Federica Furlani


Questo contributo è parte di derive-sceniche, rubrica che intraprende piccoli itinerari comparatistici a partire da spettacoli e performance, fa dialogare la scena con le altre arti e disegna nuove cartografie di senso.