Si potrebbe considerare il lavoro proposto da Romeo Castellucci per il laboratorio della Biennale Teatro 2010 come articolato secondo due polarità, che si intrecciano e si avvicendando continuamente fra il palco e la platea del Teatro Piccolo Arsenale di Venezia.
Da un lato, gli esercizi individuali nei quali gli allievi sono condotti a reagire a una certa situazione (degli elementi di scena, una luce, un suono, una sensazione…).
L’altra polarità corrisponde invece al lavoro di creazione, che porta i partecipanti a creare autonomamente, da soli o in piccoli gruppi, immagini e azioni. Performativamente o solo a livello mentale, ognuno degli allievi si confronta con il processo di creazione. Protagonista assoluto del laboratorio e di entrambi questi processi – a livello teorico e concretamente – è lo sguardo che osserva, e dunque lo spettatore. Facciamo qualche esempio.
Amândio e Massimiliano, ognuno da un lato del palcoscenico, conducono verso il centro – occupato da un grande foro che trafigge il fondale – due capi di una corda: due aste affilatissime, si infilano nel buio del buco nero; dopo poco emerge un busto nudo, quello di Carles, dentro il quale queste linee scompaiono. Seconda situazione: Pavlos è a centro scena; Karine gli inserisce in bocca il capo di una corda, trattenendo l’altro nella propria mano. L’attrice comincia a girare intorno all’uomo, legandolo progressivamente, mentre altre due (Valentina e Monia), come sentinelle, osservano in silenzio. Infine: una corda pende dal soffitto, sempre attraverso il foro di fondo; sembra animarsi da sé. Presto Georgina vi si arrampica, segnando fisicamente, con insistenza, le coordinate spaziali, orizzontale e verticale: in seguito viene legata da Marisol e Elena, mentre Valerio osserva, sbucciando un’arancia e gettandone i residui a terra, a un soffio dal volto dell’intrappolata.
Sono queste le tre variazioni di uno stesso esercizio, presentate da ciascuno dei gruppi di quattro attori a partire da un tema dato il giorno precedente: legare una persona con una corda. Un minimo scambio di battute: l’intrappolato chiede «Chi siete?», gli altri rispondono «Siamo le parole». In brevissimo tempo, poco meno di un giorno, i partecipanti del laboratorio di Romeo Castellucci sono andati a comporre una propria performance sulla trappola del linguaggio. Alla plasticità della prima versione – che fa dell’uomo un idolo intinto in quella che potrebbe ricordare un’enorme aureola – fa seguito la sobria precisione della seconda, in cui la trappola si costruisce lenta, inesorabile, intorno alla vittima; per giungere alla terza, annodamento elegante accompagnato da bucce d’arancia. Questi sono i modi in cui, in questo laboratorio, le “parole” tentano di catturare l’azione attoriale.
Altra sperimentazione di creazione dall’esito performativo coinvolge invece singolarmente gli allievi del laboratorio: l’ultimo giorno di lavoro è dedicato ad affrontare la realizzazione di un’azione a partire da alcuni elementi dati. Nel primo caso utilizzando una lunga parrucca nera e sangue finto; in un altro creando un ballo di dodici fantasmi. E poi con cento calzini; e, infine, proponendo una coreografia da svolgere prima normalmente e ancora, impedendo progressivamente i movimenti del danzatore. Si tratta di esercizi semplici, nell’innesco e nello sviluppo, ma che sulla scena acquistano un peso (ontologico? drammatico?) di tutto rilievo. In certi momenti le collocazioni spaziali dei fantasmi rompono la discreta protezione dell’esercizio, andando a comporre immagini di una potenza straordinaria: come nella coreografia di Pavlos, ad esempio, quando sono tutti riuniti all’interno del foro di fondo, quasi a tracciare un ritratto di famiglia a cui sono sottratti i volti; o nel lavoro di Georgina, in cui i fantasmi fuoriescono scivolando dal fondo e strisciano smuovendo il profilo orizzontale del palcoscenico.
Al cuore del lavoro laboratoriale, nella giornata di venerdì, è invece un esperimento “soltanto” mentale, ma non per questo meno coinvolgente. Anzi. Le immagini sprigionate dall’ideazione dei singoli allievi si condensano in una vitalità incredibile, anche se descritte solo a parole. L’idea è quella di creare uno spettacolo a partire da sette elementi dati: un cane, un abito, un fantasma, un furto… L’unica regola, la più fondante, è rimanere legati a un principio di fattibilità delle proprie idee.
Romeo Castellucci indica come questo modo di procedere sia molto vicino a quello praticato da egli stesso nella creazione dei propri spettacoli. Come negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, non vi è nulla di corporale, ma si tratta di una tecnica integralmente mentale che vede nell’idea il proprio innesco essenziale. Anche private dell’esperienza del palcoscenico, le immagini e le situazioni dimostrano la propria efficacia, la propria concretezza irriducibile.
Dopo soli quarantacinque minuti di ricerca, gli allievi presentano le proprie creazioni, ed è un’esplosione magnetica che attrae l’attenzione e il pensiero per tutto il pomeriggio. Ogni allievo, dunque, dà vita alle proprie immagini, articolate in sequenze di azioni, raccontandole in quella babele di lingue franche che si è imposta come linguaggio ufficiale del lavoro laboratoriale: soprattutto italiano e spagnolo, ma anche catalano, portoghese, inglese e francese, fino al greco e a una innumerevole serie di parole-chiave spesso del tutto inventate che contaminano mimica, gestualità e grammatiche di provenienza diversa.
Castellucci nota come i singoli racconti condividano quasi tutti la consistenza dell’enigma, del sogno: è l’esperienza di abbandonarsi o consegnarsi alle figure, che, pur non spiegandosi, arrivano e rapiscono. È interessante notare come, a fronte di un’identica proposta di partenza (rappresentata dai sette elementi cui si è fatto cenno), si possano sviluppare vari percorsi immaginativi, che danno luogo e vita ad altrettanti – anzi, maggiori – ambienti, o «mondi», come li chiama Castellucci, concreti quanto la realtà stessa. L’accento, qui – e si tratta di una riflessione destinata a fuoriuscire dalle porte del laboratorio, travolgendo forse il proprio pensiero sul teatro e, perché no, sulla realtà – è posto dunque sulle relazioni che si possono tessere o non fra un elemento e l’altro. Dunque, sul lavoro dello spettatore, destinatario ultimo dell’elaborazione immaginativa.
Al centro dell’esperimento, segna il regista alla fine delle esposizioni, è infatti lo spettatore: in un’azione drammatica dev’essere sempre contenuto un «proiettile d’oro» destinato a colpire il corpo del pubblico; tutto il resto serve a preparare il terreno, affinché «il petto dello spettatore sia aperto a riceverlo». Questo momento, sottolinea il regista, corrisponde alla consapevolezza di essere guardati da quello che si sta vedendo – è la concreta spiegazione dell’ormai celebre “guardare guardarsi” che ha accompagnato in questi anni il lavoro della Raffaello Sanzio. È nel corpo dello spettatore, nell’accurata predisposizione degli elementi affinché quel proiettile sappia colpire a dovere, che si gioca tutto il teatro. Come si vede anche da questo laboratorio, non è importante stabilire un metodo attraverso cui ottenere tale risultato, non esistono soluzioni verificate o itinerari privilegiati – e questa è forse la grande lezione di ricerca trasmessa da questi giorni di lavoro laboratoriale: ogni artista ha il suo, e ognuno lo trova, nuovamente, ogni volta. Le relazioni fra le immagini, al centro dell’attenzione e del lavoro di tutta l’esperienza laboratoriale, sono definite dall’artista, ma la tessitura è delegata al pubblico: è lo spettatore che vede in luce creativa, ed è in lui, dunque, che si gioca l’esito di uno spettacolo. Il laboratorio – e la testimonianza – si chiudono su un termine greco citato da Castellucci a proposito del ruolo cruciale dello spettatore: “epopteia”, che significa “sguardo che forma”. Nel teatro pre-tragico, durante i misteri eleusini, gli spettatori erano in parte incaricati della creazione – al cuore del lavoro di uno dei maggiori registi del teatro contemporaneo, e del suo insegnamento, è ancora questo “sguardo che forma” ad innescare, plasmare e muovere la ricerca.
Roberta Ferraresi