di Cantieri teatrali Koreja – regia di Salvatore Tramacere

Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano _ 8-13 Novembre 2011

Iancu. Bianco. Come il vestito di Fabrizio Saccomanno, seduto solo sulla scena. Bianco come la luce di certe giornate di agosto in Puglia. Bianco come lo sguardo ancora pulito di un bambino di otto anni.  Ed è proprio attraverso questo filtro – gli occhi di un ragazzino un po’ cresciuto, al punto di avere un po’ di iancu anche tra la barba e i capelli – che si dipana la narrazione. Saccomanno non imita un bambino. La voce, e anche una qualche sotterranea consapevolezza che traspare di tanto in tanto, sono quelle di un adulto. Che forse ricorda, forse evoca ad occhi chiusi (così accoglie il pubblico: seduto, ad occhi chiusi, tastandosi le mani come cercasse di trattenere un’immagine) una giornata di tanti anni fa.

È una domenica di Agosto del 1976. È tempo di scioperi generali che bloccano il paese, ma anche di processioni in onore della Madonna, di motorini Garelli che quando si avviano fanno una gran puzza, di fumetti Diabolik custoditi gelosamente dentro scatole di biscotti Doria (“Eva Kant è la donna più bella del mondo”). Ma soprattutto è tempo di andare a scuola, anche se è Agosto: è il giorno della recita “Un paese vuole dire non essere soli”, che nasconde, dietro il titolo colto e altisonante,  quella che per un bambino di otto anni è la più evidente delle verità. Perché è proprio così, vivere in paese vuol dire non essere mai soli: ogni angolo di strada, così come ogni momento del racconto, brulica di personaggi. C’è Antoniuccio che sente da che parte arriva il vento ciucciandosi le dita. C’è Angelina che aspetta, con una foto in grembo, il suo innamorato che presto verrà a prenderla. C’è il feroce Carmine Mutilato (che, inavvertitamente, viene salutato come “Carmine Mutilato” perché “ in paese non capisci mai dove sta il nome e dove sta l’ingiuria”). Ma soprattutto c’è Rosa Parata – prostituta dalla lunga e dolorosa vita, in bilico tra atmosfere alla De André e noir almodovariano – capace di chiudere in un sacco, con un incantesimo, persino la morte. Presto, questa precaria tranquillità verrà turbata dall’avvistamento del bandito Mesina, fuggito dal carcere di Lecce: come una catastrofe naturale, la notizia passerà di bocca in bocca, facendo esplodere i meccanismi scricchiolanti della convivenza civile e creando una forma di isteria collettiva.

Saccomanno evoca, fa sorridere (talvolta ridere: di taglio decisamente comico è l’esitante confessione al prete di atti impuri di cui si ignora il significato), accelera di improvviso i ritmi in una narrazione sottile, ironica, di una delicatezza che ricorda quella del collega Saverio La Ruina. Ma lo spettacolo offre allo spettatore un finale alla Big Fish ricordandogli che è difficile separare realtà e finzione e che forse non è così rilevante farlo: all’uscita, ad attenderlo, troverà “La gazzetta del mezzogiorno” di quella domenica d’agosto 1976 tutta dedicata al bandito Mesina e la lapide – senza data di nascita e di morte – di Rosa Parata.

Maddalena Giovannelli