di Eimuntas Nekrošius
visto al Teatro Franco Parenti di Milano_ 21-23 Ottobre 2011

Tratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij, Idiotas raccoglie una difficile eredità letteraria e la trasforma, plasmandola e sottomettendola alla visionarietà di un Eimuntas Nekrošius che sembra sempre più intento, dopo l’Anna Karenina di Tolstoj, a confrontarsi coi grandi romanzieri dell’800.

“Da tempo mi tormentava un’idea […] raffigurare un uomo assolutamente buono. Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d’oggi soprattutto”

Così scriveva Dostoevskij nel 1865 in una lettera coeva alla stesura de L’idiota.
Niente di più profetico. Con la differenza che, al giorno d’oggi, difficile non è solo raffigurarlo, quest’uomo buono, ma anche raffigurarselo: il Myškin di Nekrošius sembra aver smarrito lo splendore della bellezza, la sua aurea cristologica e quel fascino quasi sovrannaturale di cui godeva in forma letteraria, per assumere più marcatamente i connotati dell’inetto impulsivo, incapace di scegliere perché inadatto al contesto sociale in cui vive.

Complice di questa prospettiva è la messa in scena. Se Dostoevskij, partendo da una vicenda simile a quella di un melodramma romantico -“La signora delle camelie” di Dumas viene citata apertamente- ne aveva distrutto le rassicuranti convenzioni borghesi grazie alle tematiche che la controversa figura del principe Myškin fa affiorare nel milieu tipicamente ipocrita della nobiltà di S.Pietroburgo, Nekrošius, da parte sua, attua un’ulteriore provocazione, questa volta stilistica.
Una metamorfosi che travolge i personaggi e li scardina dal realismo romanzesco per portarli su un piano metafisico-irrazionale evidenziato con rigore dalla scenografia (la porta e i martelletti-picchi su tutti), dalle musiche quasi costanti, e dalla recitazione degli attori che affidano al gesto, più che alla parola, l’espressività emotiva dei protagonisti.
Il testo diventa quindi un’ancora, che imbriglia e tiene assicurata alla struttura narrativa un’interpretazione che sembra poter prendere il volo in ogni momento e sconfinare in un espressionismo astratto. Non a caso, l’inizio del primo e la fine dell’ultimo atto, delegati a introdurre e a tirare le somme della storia, pagano il pegno di una libertà creativa incatenata che esonda invece, in tutto il suo onirismo, nella parte centrale dell’opera.

Infine diciamolo: assistere a uno spettacolo di cinque ore e mezza non è cosa che si può far spesso o che chiunque è in grado di affrontare. Anche con tutta la buona volontà, nonostante l’eccezionale energia degli attori ed il valore della messa in scena, in un lasso di tempo così lungo, la concentrazione si affievolisce, lo spettatore si distrae e anche l’occhio attento rischia di cedere il passo al sonno.
Certo, dopo aver visto il Faust -quattro ore e mezza che volavano d’un fiato-  ci si aspettava che il genio e la sorprendente direzione di Nekrošius potesse dissipare, anche in questa occasione, il tabù di una durata pantagruelica.
Non è così e in fondo non importa: la qualità c’è, si vede e si gode ugualmente.

Corrado Rovida