di Carrozzeria Orfeo
visto all’OutOff di Milano_19-25 Marzo 2012
Raccontare il vuoto dell’esistenza contemporanea: questo l’obiettivo ambizioso ma concreto dello spettacolo firmato da Carrozzeria Orfeo. La messinscena va dritta al punto, senza indugiare in orpelli: pochi personaggi, storie lineari, una scena scarna che non distragga lo spettatore. Nel fuoco della lente di ingrandimento ci sono due nuclei familiari (o presunti tali): una giovane coppia e due coniugi con figlio e nonno. Ognuno alle prese con le proprie solitudini e i propri idoli, divinità di plastica alle quali immolare l’esistenza: il calcio e le sacre magliette della squadra, un costoso seno nuovo per il quale madre e figlia sono pronte a combattersi le ceneri della nonna, l’albero di natale e le pizze da ordinare, un incontro sul web che si vorrebbe diventasse un amore prêt-à-porter.
Il mondo di consumo e vanità è lo stesso che amano indagare Ricci e Forte, ma lo sguardo radicalmente diverso: Carrozzeria Orfeo sceglie un codice quasi cinematografico, fatto di zoom su dialoghi a due, di campi lunghi su tutta la casa, di frammenti di sceneggiatura crudi e serrati. La drammaturgia, firmata da Gabriele di Luca, non cerca raffinatezze estetizzanti: la forma scelta è un veicolo spoglio in grado di far arrivare con più forza possibile una fotografia della nostra contemporaneità degradata. Piccoli inciampi, qualche passaggio meno riuscito, poche cadute di tensione nel testo sono un prezzo che si paga volentieri (specie a un giovane drammaturgo): in tempi in cui le forme più sperimentali del teatro sembrano avvilupparsi su se stesse e tendere all’autoreferenzialità, l’immediatezza e l’efficacia dello spettacolo sono risultati preziosi. Il coinvolgimento del pubblico è percepibile: ride, commenta, applaude, si zittisce d’improvviso. E se in un primo momento troppo fragorose e facili sembrano le risate in risposta al cane drogato di popper, e al pelaverdura che è costato molto ma ha dato alla casalinga “grandi soddisfazioni”, presto ci si accorge che sono armi a doppio taglio: le battute quasi in stile Zelig, come miele per le mosche, attirano lo spettatore per poi colpirlo alle spalle, mostrandogli d’improvviso la povertà di linguaggio e di spirito al quale si è abituato.
Si tratta di un meccanismo a orologeria, dall’ineccepibile ritmo interno: a dialoghi che prendono forza in calibrati crescendo (straordinario il confronto tra marito e moglie davanti all’albero di Natale), si alternano silenzi, e poi urla, e poi calma apparente. Ecco perché particolarmente efficace appare il momento in cui, circa a tre quarti dello spettacolo, il codice narrativo viene sospeso e la scansione del tempo si rompe: in una lunga sequenza onirica vediamo i personaggi cercare invano di alzarsi da una sedia a rotelle, di liberarsi dalla zoppia morale alla quale si sono autocondannati, li sentiamo scandire lentamente frasi che rivelano senza ipocrisia le relazioni con gli altri, li percepiamo vivere gli spazi domestici in modo più disteso e straniato. Si tira il fiato per un momento, mentre i membri della famiglia depongono maschere e isterie e si lasciano andare a sogni e desideri in un’atmosfera nebulosa e sgranata. Ma dura il tempo di un attimo: poi si viene catapultati di nuovo nel mondo schizofrenico dove si litiga per un dentifricio, si tacciono maltrattamenti e malattie, si calpesta l’altro inseguendo la propria solitudine.
Maddalena Giovannelli