È stato il filosofo francese Gaston Bachelard a mostrare come una casa possa diventare «strumento di analisi per l’anima umana», e sono i ricordi del suo lavoro a tornarmi a mente con insistenza durante Il grande vuoto, diretto da Fabiana Iacozzilli e presentato, dopo l’esordio nell’autunno romano, al Teatro Cantiere Florida di Firenze durante l’undicesima edizione di Materia Prima Festival, a cura di Murmuris. Pubblicato nel 1957, La poétique de l’espace affrontava il ruolo dello spazio domestico nel formarsi dell’immaginazione poetica, dando nuova luce alle stanze che abitiamo, ai nostri cassetti e ai loro angoli. Armoire – scriveva per esempio Bachelard nel capitolo Il cassetto le cassepanche gli armadi – è parola «maestosa e familiare», complice e spaventosa. Il vero armadio, infatti, non è un «mobile quotidiano», quello che apriamo ogni mattina alla ricerca dei vestiti, ma è il custode «che protegge tutta la casa contro un disordine senza limite». Ripiani e cassetti, cassepanche e cofanetti sono «veri e propri organi della vita psicologica segreta», ed esattamente questo – cioè un «modello di intimità» – è anche il grande armadio a muro nel salotto de Il grande vuoto. Qui, davanti a questo pentagramma di legno scuro affollato di ante e di pomelli, di stoviglie e di stoffe, di ninnoli e di giochi – un progetto scenico di Paola Villani – due figli (Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti) devono superare la morte del padre (Ermanno De Biagi) e fare i conti con gli inciampi, i cedimenti rovinosi e infine i voli della memoria della madre (Giusi Merli).
Perdere la memoria – o vedersi svanire nella memoria degli altri – è un grande vuoto e, insieme, è il suo contraltare materiale, un troppo pieno di oggetti: un pallone di spugna e uno Spiderman di plastica; un televisore per guardare la Lazio e una matrioska comprata nella San Pietroburgo di quarant’anni fa; i bicchieri, le fondine e una montagna di cravatte che nessuno indossa più. Non sembra un caso, verrebbe da aggiungere, che nella lingua francese armoire e mémoire risuonino tanto, a formare un altro piccolo nodo di questo lungo filo rosso che curva tra la geometria della casa e la psicologia del ricordo, tra un cofanetto di Bachelard e un carillon di Iacozzilli.
Il piano di appoggio su cui il filo corre è quello della tavola, la superficie dove si depositano il caos e il dolore, i giochi e la polvere risollevati dagli inneschi irrazionali della memoria – quelli per cui una madre, ex attrice, ricorda ancora l’intero Re Lear recitato proprio nella San Pietroburgo della matrioska, ma non sa più dare un nome al volto del proprio figlio. È intorno a quel lungo tavolo da pranzo che si materializzano la nostalgia e la paura: la prima innescata da un paio di posate in meno quando si apparecchia, la seconda mossa dalla fine che si avvicina quando a tavola si siede una persona in più, cioè un’estranea (Mona Abokhatwa) cui affidare la cura della propria madre. Sempre intorno a quel tavolo, si avverte tutto l’amaro di una zuppa meno buona del solito (quella che poi, nei giorni del dopo, ricorderemo come la prima avvisaglia della malattia trasformatrice), e ancora il tavolo è il vero palcoscenico dei coprotagonisti di questo lavoro, ovvero tutti quegli oggetti – tutta quella materia: plastica e stoffa, vetro e legno, cera e argento – che porta traccia del tempo passato. Su questo tavolo, infine, si allineano anche gli altri due spettacoli della trilogia che con Il grande vuoto si chiude: nell’aula de La classe (2019) alcuni banchi in miniatura definivano lo spazio in cui potevano riabitare i ricordi dell’infanzia, mentre in Una cosa enorme (2021) una lunga tavola era il piano su cui sedimentavano le paure dell’età adulta e il desiderio di prendersi cura degli altri, in tutte le sue forme.
Così intimamente legato al teatro di figura, ma anche così attento alla drammaturgia scenica, il lavoro di Iacozzilli – in collaborazione con Linda Dalisi e aiutata alla regia da Francesco Meloni – pesa le parole con scrupolo e cura, accumulandole nei dialoghi più concitati e sopprimendole quando a parlare deve essere la sola scena. A rimanere, effettivamente, saranno soprattutto immagini: una coppia di anziani genitori e la loro sigaretta condivisa tra i sedili di un’automobile – uno spazio per loro così pieno di ostacoli, eppure ancora così intimo; le candeline su una ciambella, per il compleanno di un fratello che sembra non essere più figlio; il trono casalingo di quel Re Lear, ora messo in scena in salotto, tutti insieme – madre figli e badante, spade corone e mantelli – mentre i colori dei coriandoli sostituiscono il bianco della neve e quello dei ricordi di San Pietroburgo. Finanche, rimarranno le immagini video, proiettate sopra la scena: quelle delle telecamere installate dai figli in casa, che dovrebbero sorvegliare un presente apparentemente incontrollabile e che finiscono per sorprenderne uno oscillante tra il quotidiano e l’irrazionale, tra la nudità ovvia del bagno e quella imprevista, dunque più violata, di un’anziana donna a lungo immobile nella propria camera da letto.
Contraddittorio come La banda (una tristezza così non la sentivo da mai, ma non può essere tristezza a tutto tondo se a risuonare a teatro è la voce di Mina), Il grande vuoto assomma empatia e distanza ma rifiuta l’immedesimazione – una chiave facile, ma fallimentare, davanti a un tema che, qualunque sia la nostra storia personale, tanto scuote e tanto spaventa. Al contrario, e proprio come per l’armadio di Bachelard, il lavoro di Iacozzilli è «come un’anima che non si confida, la chiave non si trova sulla porta». Bachelard lo scriveva rievocando i versi del poeta Charles Cros:
Mi ci è voluto uno sguardo molto rapido, l’orecchio ben affinato, l’attenzione ben vigile,
Per scoprire il mistero del mobile, per penetrare dietro le intarsiate prospettive, per raggiungere il mondo immaginario attraverso i piccoli vetri.
Ma alla fine sono riuscito a intravedere la festa clandestina, ho ascoltato i minuscoli minuetti, ho sorpreso gli intrighi complicati che si tramano nel mobile.
Basteranno sguardo, orecchio, attenzione e arriveremo da soli al «mistero del mobile», ciascuno davanti ai propri scrigni: Il grande vuoto, intanto, aiuta a intravederne la festa, ad amplificarne i minuscoli minuetti.
Virginia Magnaghi
La citazione è tratta da Charles Cros, Le meuble, in Le Coffret de santal, Lemerre 1873, pp. 147-152: «Il m’a fallu avoir le regard bien rapide, l’oreille bien fine, l’attention bien aiguisée, / Pour découvrir le mystère du meuble, pour pénétrer derrière les perspectives de marqueterie, pour atteindre le monde imaginaire à travers les petites glaces. / Mais j’ai enfin entrevu la fête clandestine, j’ai entendu les menuets minuscules, j’ai surpris les intrigues compliquées qui se trament dans le meuble».
in copertina: foto di Laila Pozzo
IL GRANDE VUOTO
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
dramaturg Linda Dalisi
con Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli
e con Mona Abokhatwa per la prima volta in scena
progettazione scene Paola Villani
luci Raffaella Vitiello
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
costumi Anna Coluccia
video Lorenzo Letizia
aiuto regia Francesco Meloni
scenotecnica Mauro Rea, Paolo Iammarrone e Vincenzo Fiorillo
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
direzione tecnica Francesca Zerilli
assistenti Virginia Cimmino, Francesco Savino, Veronica Bassani, Enrico Vita
collaborazione artistica Marta Meneghetti, Cesare Santiago Del Beato
foto di scena Laila Pozzo
ufficio stampa Linee Relations
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, La Corte Ospitale, Romaeuropa Festival
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura
con il sostegno di Accademia Perduta / Romagna Teatri, Carrozzerie n.o.t, Fivizzano 27, Residenza della Bassa Sabina, Teatro Biblioteca Quarticciolo
si ringraziano Luisa Pacilio, Martina Bonati, Martina Tirone, Clara Greco, Benjamin Miller, Mirko Lorusso, Irene Paloma Jona, Marco Ferrara, Beth McCreton, Angela Di Domenico, gli spettatori e le spettatrici del Teatro Herberia Rubiera; Fondazione Casa Lyda Borelli per artisti ed operatori dello spettacolo di Bologna, Casa Residenza Anziani (CRA) di Rubiera; il Centro anziani del comune di Magliano Sabina, Cecilia Alei, Agnesi Graziella.