La stagione invernale del Lavoratorio ha ospitato Chiara Fenizi e Julieta Marocco in Lei Lear, una tragedia shakespeariana che diventa una commedia dei nostri giorni. Dopo lo spettacolo, abbiamo potuto intervistare le attrici.
Cosa resta del Re Lear shakespeariano in uno spettacolo che sembra, già nel titolo, distanziarsi dall’opera originale?
MAROCCO: Non abbiamo mai avuto la pretesa di raccontare la tragedia, ma volevamo trovare modalità sceniche che portassero a un incontro tra il pubblico le figure di Regan e Goneril. L’idea di mettere in scena solo alcuni elementi di Re Lear emerse nel 2016 grazie ad Alfonso Santagata, a partire da uno spettacolo che si chiamava Interni scespiriani: qui un gruppo di personaggi shakespeariani abitava gli spazi di un condominio. Da allora, rispetto a «cosa rimane di Re Lear?» ci siamo chieste «che cosa può emergere della tragedia attraverso la forma di queste due figure sceniche?». Per esempio, questioni che riguardano la sete di potere e di possedere l’altra; il tenere il corpo altrui sotto le proprie mani, ma anche mantenere il corpo del pubblico in tensione e cercare di dominarlo: questa ansia di possesso tipica della tragedia shakespeariana e della sua atmosfera si riflette bene anche nel nostro lavoro.
Come mai proprio Regan e Goneril?
FENIZI: Con Santagata iniziammo il lavoro su questi due personaggi. Nel suo spettacolo Regan e Goneril erano le parrucchiere del condominio shakespeariano. Abbiamo deciso di dare loro una nuova vita. Farle diventare una sola figura protagonista ha portato con sé tanti dubbi: alla fine, il modo per farlo l’abbiamo trovato coinvolgendo il pubblico come l’interlocutore del loro dialogo-monologo.
Come mai avete deciso di vestire il tragico di comico?
FENIZI: Quella del comico è stata una scelta: volevamo lavorare su quello. La tragedia, il dramma che di natura è sempre tragico, se moltiplicato per mille può anche diventare commedia: quando la tragedia arriva al suo estremo tocca delle punte comiche, e noi siamo andate in quella direzione. La materia prima dei corpi di Regan e Goneril è la comicità: non possono far altro che ridere. Talvolta strappare delle certezze dalla drammaturgia dei personaggi è interessante perché dà la possibilità di guardarli da un’altra prospettiva: spostare una cosa dal suo habitat, insomma, fa riconsiderare alcuni aspetti, e questo è successo a Goneril e Regan allontanandole dal tragico.
Sul sito parlate di uno ‘spettacolo cacofonico’ e in un’intervista di una sorta di macchinetta ‘unisonica’. Cosa intendete?
MAROCCO: Questa è stata un’intuizione di Alfonso Santagata, che concepiva queste due figure come un ingranaggio di un unico corpo: ci piacque molto questa sua fantasia.
Come siete arrivate alla collaborazione con André Casaca? Come mai la scelta di un clown?
FENIZI: Non avevamo mai lavorato con André. Mentre pensavamo al progetto abbiamo cercato un clown che ci potesse dare uno sguardo esterno e siamo andate a conoscerlo. Con la pandemia la collaborazione si è fermata, ma durante il lockdown ci siamo immerse nel lavoro a tempo pieno e la necessità di un occhio esterno era sempre più urgente, perciò siamo tornate da Casaca. Regan e Goneril sono anche questo, due clown: innanzitutto per la loro interazione con il pubblico – il clown vive di pubblico – ma poi anche per il loro essere personaggi fragili e sperduti. Da qui, la proposta ad André di farci da co-regista.
In un’intervista a Theatron dite che avete avuto difficoltà a inserirvi in un contesto teatrale nazionale come quello italiano, è ancora così?
MAROCCO: Abbiamo avuto qualche difficoltà in Italia con le nostre produzioni precedenti; essendo entrambe coproduzioni internazionali (Trittico urbano 2018-2019) tra il Brasile e la Spagna, la sensazione che ho avuto è che qui il mercato, essendo più piccolo, fatica a dare spazio alla ricerca.
FENIZI: Purtroppo in Italia si lavora tanto sull’intrattenimento, e non sul “trattenimento”, come lo chiamiamo noi. Questo approccio grava su lavori di ricerca come il nostro. Rispetto a quell’intervista, però, le cose sono cambiate: abbiamo avuto dei riconoscimenti, vinto dei premi e avuto coproduzioni che ci hanno permesso di entrare in un circuito che ci ha sostenute.
Perché avete scelto di lavorare sul doppio?
MAROCCO: Oggi per lavorare a teatro sembra sia necessario dimostrare di partire sempre da idee intellettuali e intenzioni molto solide. Ecco, io non credo sia così: penso che dovremmo sempre partire con qualcosa che abbia a che fare con il piacere, che ci diverta e ci metta in contatto con l’altro, questo è il terreno fertile dove possono emergere le visioni teatrali. Questo è proprio ciò che è accaduto con il tema del doppio: si è sviluppato da solo, secondo un processo naturale che ha assecondato in noi riflessioni e meccanismi autonomi.
Lei Lear ci sembra uno spettacolo che nasce nell’estrema chiusura, ma con il quale vi siete divertite e avete usato la libertà – una libertà che arriva bene al pubblico.
MAROCCO: Spero sia così! Anche dal punto di vista dei nostri movimenti e dei nostri corpi, effettivamente, lo spettacolo a prima vista non dà spazio a fughe. Io sono sua schiava e lei è la mia, non posso prendere nessuna strada che non prenda in considerazione il suo movimento: io sono in una partitura serrata di movimenti e parole legate a lei, ma allo stesso tempo lì dentro trovo lo spazio per il mio personaggio. Non sono fisicamente chiusa in una gabbia, ma la gabbia paradossalmente c’è, e questa rigidità, al contrario di quanto verrebbe da pensare, consente di vivere in modo libero lo spettacolo: ogni volta che andiamo in scena è una nuova esperienza che parte da un limite molto preciso, ed è proprio questo limite che non ci fa mai smettere di creare.
a cura di Tommaso Quilici ed Eugenia Tafi
in copertina: foto ufficio stampa
LEI LEAR
di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco
regia André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco
consultor Francesco Ferrieri
coproduzione Scarti, Teatro C’Art e Muchas Gracias
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2