Un dialogo tra due spettatori: Vittorio Fiore e Dario La Ferla
Ci siamo incontrati a teatro dopo Scannasurice, sulla soglia del camerino di Imma Villa, carichi delle suggestioni appena ricevute. La visione, avvenuta a distanza di tempo dalla prima (lo spettacolo è del 2015), ha lasciato — come spesso avviene — spazio a ricordi, ravvivati e arricchiti da nuove sensazioni. Sentiamo la necessità di tornare a parlare di Scannasurice per aggiungere riflessioni derivanti da ambiti disciplinari spesso tralasciati. Di qui l’idea di fissare un incontro per parlare tra noi, uno studioso di scenografia e un coreografo e regista di movimento scenico, alla ricerca di un evidente trait d’union: la connessione tra spazio scenico e azione che aggiunge elementi all’essenza del pensiero di Moscato, oltre il parlato, abilmente e fedelmente trasmesso al pubblico in questa regia di Carlo Cerciello.
Vittorio Fiore: La scena di Scannasurice ci porta in una Napoli all’indomani del terremoto del 1980, una città spenta, ferita, lacerata, incerta sul futuro, un milieu da dopoguerra, simile a quello descritto nei testi di Anna Maria Ortese. Moltissimi i danni; il centro storico, con alte e ampie insulae in una scacchiera di strade strette dove non arriva mai il sole, appariva come un alveare in decadenza, tra crolli e puntelli, immagine di uno dei periodi più bui della città. In questa atmosfera Enzo Moscato colloca il suo doloroso e denso monologo a cui la messa in scena di Carlo Cerciello (che affronta il testo nel 2015 dopo la storica regia di Annibale Ruccello con lo stesso Moscato interprete, 1985) fornisce una città planimetrica, un reticolo in negativo, una trappola, un labirinto, al cui interno le persone sembrano topi. Questa mappa dei Quartieri Spagnoli è stata ribaltata in verticale: Roberto Crea l’ha trasformata in scenografia, sintetizzando l’essenza della Napoli “di sotto”, gli ambienti che tra abusi, soppalchi e solai crollati, ballatoi e seminterrati bui, sono sovraffollati da uomini, topi e blatte, in claustrofobiche tane adattate.
Dario La Ferla: Gli spazi e le ombre, come neo-inferi, costringono il “femminiello” a comprendere la propria misura esistenziale, realizzare una propria dolce crudeltà fenomenologica. Corpo, tra cunicoli di gabbie e vuoti che riempie come plastica ripiena di sordido liquido. Essere scenico senza propria età, sesso, desiderio. La precisa partitura dei segni fa marionetta il buio dentro, la spazzatura nello spazio scenico come dell’anima, che trasfigura fatti, visioni e morte. Persino bottiglie vuote diventano compagne di scena e del pupo, corpo per il corpo che ci si attacca, carezza: si confortano vicendevolmente con contatto scarno, cioè privo d’incanto. Vuoti a perdere, forse pieni di nulla, gesto nevrotico quanto rituale: un sorso e avanti la bottiglia successiva. Ce n’è sempre una dietro un vuoto.
V. F.: Il protagonista striscia, si piega, si distende o si siede, non avendo spazi sufficienti da consentirgli la posizione eretta. L’attrice, ora visibile per porzioni, ora incorniciata e circoscritta in posizione accovacciata, denuncia inconsciamente l’inabitabilità configurativa e geometrica del luogo, a cui adatta il suo corpo aderendovi con la naturalezza di un animale che conosce e vive la propria tana.
Le bucature campite di luce ora sono un’apertura, ora un letto, ora un altarino, in un alternarsi sonoro di scosse del terremoto che continua a farsi sentire. Il fondale su cui si stagliano questi loculi risulta buio, nero, ma a tratti la sua fitta ramificazione di crepe si “irrora” di luce.
Questa condizione si acuisce tra spazzatura, macerie, cumuli di materiali non identificati, utensili e effetti personali, oggetti dalle molteplici possibilità d’uso scenico, che si prestano alla sua performance fisica e vocale; la griglia, grigia e fitta, con intonaci scrostati e dilavati, restituisce una serie di “cornici narrative”, via via illuminate sapientemente con luce, ora frontale ora radente (nel light design di Cesare Accetta), in cui il protagonista racconta le storie, le dicerie, i fatti quotidiani e le calunnie, facendo rivivere, tra aneddoti e leggende, personaggi reali e dell’immaginario popolare: dal monaciello alla bella’mbriana.
D.L.F.: Corpo d’attrice infallibile, trasformativo, si forma e trasforma: ombroso, fiero, liquido, austero, madonnale, scheggiato, piegato e ripiegato sul sè corporeo e dunque esistenziale. Lui/lei si santificano, rallentando e accelerando come elegia, con sarcasmo e severità a tratti da Sacra Inquisizione che già minaccia sentenziando senza parole. Sacro e profano riemergono nel corpo ora preciso, burattino, ma anche puparo. Come se vittima e carnefice indossassero la stessa pelle, gli stessi gesti. Che ci trasportano per vicoli e ballatoi e balconi dirimpettai, attraverso rotazioni di falangi, polsi e avambracci, in un disegno mimico sicuramente partenopeo, ma non solo. Tra la bestia in gabbia e il circense, si presenta un corpo sacco, praticamente goffo, quasi pugile già suonato, leone sfinito strafatto. Corpo sfatto sì, ma con guizzi pari a lazzi: mani come luminarie di festa vagheggiano su parole e chiusure di battuta; cosce pesanti, esibite senza ostentazione, inservibili; schiena ricurva, cifotica sempre, come segnata da alcool e battimenti; spalle costrette ad adattarsi ai cunicoli, alla geografia del vuoto come esistenza a perdere, come bottiglia usata e piena di aria fetida; capo e maschera simil Arancia meccanica, che sovrastano quel corpo come luce tra spettri.
V. F.: Si tratta di un oggetto scenografico che, superando la sua origine planimetrica, si traduce in un oggetto drammaturgico, un corrispettivo scenografico della partitura poetica di Moscato; edificio, vicolo, quartiere di una Napoli dalla duplice natura tra “alto” e “basso”; quest’ultimo è il brano di città, quasi cimiteriale, che ne vomita all’esterno il suo abitante “di transito”, dalla natura divina e terrena. Una scenografia interamente praticabile, pensata incastrata perfettamente nel palco del Teatro Elicantropo di Napoli, finalizzata ad una vista dalla platea gradinata, posizione giusta per percepire la scena come dall’alto: un rigido sistema di cunicoli ove l’attrice è imprigionata per tutto il tempo scenico; anche quando ne esce — eretta sui suoi tacchi — continua a percorrere uno stretto marciapiede: una base con basole scenografate ove convergono scarichi fognari, tubature, condotte del gas, saittelle…
D.L.F.: Poi, per incanto, si ammanta la voce come dal capo in giù, si arresta il tempo, si mitizza il momento, si parla di nascita e morte, il corpo immobile e ieratico delega alla voce. Regale, sacro, luminoso: ed è epifania. Forse sacrificio. Forse elegia nel corpo attoriale che ha sparlato come sputo da sé, che ha reso marionetta il buio dentro e della scena ma che sempre di più trova verticalità scendendo. Quel corpo cerca altezze, tacco, ma zoppica, goffo, su inutili coturni, tentato da finzione d’amore. Non rimane che un ritorno, con umana e insospettabile grazia, di fine come corpo denudato e liberato.
Vittorio Fiore e Dario La Ferla
Scannasurice
di Enzo Moscato
regia Carlo Cerciello
aiuto regia Aniello Mallardo
con Imma Villa
assistenti regia Jack Hakim, Tonia Prisco
scene Roberto Crea
musiche originali Paolo Coletta
costumi Daniela Ciancio
direttore tecnico Marco Perrella
foto di scena Andrea Falasconi
Visto a Noto, Teatro Tina Di Lorenzo, 6 gennaio 2020