Annullare l’unicità del punto di vista prospettico e, al contempo, frammentare le traiettorie dello sguardo: sono alcuni degli obiettivi che hanno guidato il rapporto tra danza e architettura negli ultimi decenni, tanto all’interno quanto all’esterno della scatola scenica. Le relazioni tra il corpo e lo spazio definiscono tanto l’essenza del linguaggio coreografico quanto la nostra percezione del mondo: e la seconda edizione del Lugano Dance Project (svoltasi dal 10 al 16 giugno 2024, a cura di Michel Gagnon, Carmelo Rifici e Lorenzo Conti) ha colto la centralità di questo rapporto, reso ancor più radicale dalla crescente spersonalizzazione del “corpo politico” e dall’indebolimento dei legami comunitari, definiti proprio dalla soggettività (condivisa) di essere parte di uno spazio comune.
«Nella danza il limite e l’estensione della soggettività sono effettivamente e metaforicamente esposti quando e dove i corpi incontrano lo spazio. Questo è forse il motivo per cui c’è stata un’esplosione di interesse per i corpi e lo spazio e per la metafora corporea e spaziale» osservava Valerie A. Briginshaw in un libro del 2001 (ripubblicato nel 2009) dedicato a Dance, Space and Subjectivity. A distanza di oltre vent’anni l’attualità del tema è ancora innegabile, e coinvolge tanto l’arte coreutica quanto le discipline progettuali: la consapevolezza del proprio stare in un luogo, l’evidenza della presenza dei corpi e delle loro diversità nello spazio pubblico hanno acquisito valori sociali e politici, fino a esplorare la possibilità di avviare processi trasformativi nella realtà.
Vivere il rapporto con l’architettura (o con il vuoto da essa definito) in modo attivo, come un’entità viva da interpretare e reinventare è un presupposto che sembra stare alla base dei dialoghi, delle produzioni e delle performance site specific che hanno scandito i momenti del festival luganese.
Emblematico delle intenzioni e della linea curatoriale è il progetto didattico condiviso dagli studenti e dalle studentesse di architettura dell’Accademia di Mendrisio, guidati da Riccardo Blumer, e Michele di Stefano con la sua compagnia mk. Mobile Homes – Album degli abitanti del nuovo mondo (tappa iniziale del progetto Panoramic Banana) è presentato come “una esplorazione della relazione tra corpi e cose, intesa come possibilità ambientale di reinvenzione dello spazio”: l’esito del processo didattico è una performance espansa negli spazi della ex orologeria Diantus Watch di Castel San Pietro.
L’incontro tra architetti e danzatori sembra dirci delle potenzialità del movimento per lo spazio e viceversa: lo spazio non esiste se non ci sono i corpi, così come la relazione tra essi è resa possibile da relazioni spaziali. Così, l’architettura non è statica, ma è anch’essa in movimento: il rapporto con l’edificio esistente, analogamente, non è inteso in termini di storicità, ma piuttosto di temporalità, una dimensione che include il futuro e la dinamicità della reinvenzione.
Il percorso ideato per gli spettatori negli ambienti della fabbrica abbandonata è una struttura narrativa che accompagna verso la vera e propria performance danzata. Prima, lo spettatore è libero di scoprire alcune tracce della storia dell’edificio reinterpretate dagli studenti di Mendrisio, e di muoversi tra stanze abitate da dodici macchine chiamate “danzatori elettrici”, anch’esse realizzate in Accademia: sembrano evocare gli automi e le marionette che sostituivano la presenza umana nelle esplorazioni di inizio Novecento, ma anche le geometrie delle figure danzanti di Oskar Schlemmer (il riferimento al Bauhaus, come è naturale che sia, sarà costante nelle giornate del festival). L’incontro con le macchine ha una magica intimità: le stanze sono molto piccole e gli ingranaggi si muovono, alla presenza dei loro creatori e illuminate da esili linee di luce nel buio, su linee che definiscono a terra una topografia di geometrie.
In contrasto con questa dimensione protetta, segnata dal silenzio e dalle tracce della fabbrica abbandonata, la danza finale è un rito liberatorio di condivisione e rinascita. In un ampio spazio longitudinale, bianco e illuminato di luce naturale, architetti e danzatori si uniscono in una coreografia che sembra seguire le geometrie e le rotazioni dei danzatori elettrici incontrati poc’anzi. Il dialogo è a distanza, ma si ha l’impressione di poter vedere comparire le macchine da un momento all’altro. Le direttrici di movimento seguono la linearità dello spazio, lungo una passerella che mostra con orgoglio e sfrontatezza la coesistenza delle due categorie, Architects e Dancers, esplicitando il significato delle A e delle D cucite sulle tute bianche indossate sin dall’accoglienza del pubblico.
Il vocabolario di movimenti che Di Stefano aveva già utilizzato in Bermudas (2018), come dispositivo di chiarificazione della composizione coreografica nel dialogo con lo spettatore, diventa qui la matrice della danza condivisa tra Danzatori e Architetti. «Le leggi dello spazio tridimensionale sono date dall’invisibile rete di linee delle relazioni planimetriche e stereometriche», sosteneva Schlemmer: è proprio la danza, nelle figure e nelle tensioni tracciate dai corpi, e portare questa rete nella realtà e renderla percepibile ai sensi.
Molti dei lavori visti al festival sembrano d’altra parte sperimentare ognuno una forma diversa per rivelare e rendere visibili le leggi dello spazio tridimensionale suggerite da Schlemmer, in una lettura soggettiva del concetto di spazialità attraverso il movimento.
Un altro tipo di evidenza celata è quella che Cindy Van Acker (tra le protagoniste della prima edizione del festival) rende percepibile allo spettatore con il suo Quiet Light. Sul palco della sala del LAC l’astrazione del movimento e la luce sono le forme che definiscono lo spazio, negando gli apparati visivi del set design tradizionalmente inteso, per esporre piuttosto la matericità del vuoto. L’esplosione del punto di vista di cui si accennava in apertura viene accompagnata dai giochi di prospettiva e di ombre nella profondità della scatola scenica; le figure di Stéphanie Bayle e Daniela Zaghini si moltiplicano tra corpo e ombre, mentre il movimento e la luce disegnano lo spazio. I profili delle danzatrici assumono dimensioni continuamente alterate e falsate dalla nostra visione prospettica, che ancora una volta controlla e deforma la percezione dello spazio: è un’esperienza visiva che sembra quasi ripercorrere le pionieristiche ricerche sulla fotografia del movimento anticipatrici del cinema di Eadweard Muybridge. Le geometrie definite dalla luce – nella seconda parte dello spettacolo una linea luminosa divide il palco a metà, frammentando i quadri nella scena – innescano un gioco nella relazione coi corpi. Sembrano, ancora, mettere in discussione il modo in cui siamo abituati a orientare il nostro sguardo nella percezione dello spazio, per trovare nuovi orizzonti e dimensioni possibili.
Francesca Serrazanetti
in copertina: Cindy Van Acker, Quiet Light, foto di Mathilda Olmi
MOBILE HOMES – Album degli abitanti del Nuovo Mondo
un progetto LAC Lugano Arte e Cultura / mk / USI Accademia di Architettura di Mendrisio
a cura di Michele Di Stefano / mk
con L’Atelier Blumer e gli allievi dell’USI Accademia di Architettura di Mendrisio
QUIET LIGHT
concept and choreography Cindy Van Acker
movement creation and interpretation Stéphanie Bayle, Daniela Zaghini
music existing pieces by Lea Bertucci
dramaturgical consultant Maud Blandel
stage and lighting design Victor Roy
costumes Marie Artamonoff
sound engineer Denis Rollet
production director Pauline Coppée
production manager Anna Piroud
communication Sophie Lugon-Moulin
diffusion Astrid Takche de Toledo
production Cie Greffe – Tutu Production
in co-production with LAC Lugano Arte e Cultura, Pavillon-ADC, Geneva, Théâtre Vidy – Lausanne
with the support of City of Geneva, Republic and Canton of Geneva, Pro Helvetia – Swiss Arts Council, Ernst Göhner Foundation