L’occhio era, per Elio Vittorini, l’ “uncino principale”, lo strumento indispensabile della scrittura di Giovanni Testori, il quale dichiarava di svolgere sui quadri “quello che gli altri scrittori svolgevano sui testi letterari”, di dedicare alla lettura un tempo inferiore rispetto a quello passato “a guardare e studiare un quadro”, con la conseguenza, quasi inevitabile, che la sua “vera biblioteca” era “appesa ai muri”.
Il tratto visivo nella scrittura testoriana è originario: si coglie in piena evidenza fin dal suo primo testo, Il dio di Roserio (1954) che, non è un caso, ispirò alcune tavole di Velasco Vitali, artista scoperto dallo scrittore e pittore di Novate Milanese e a esso legato anche da un condiviso amore per certi paesaggi lombardi, fatti di laghi e di monti. Sono proprio questi scenari – realtà e metafora – a essere protagonisti ne Il dio di Roserio, dove anticipano, inseguono, accompagnano, interrompono l’inesausto ardore agonistico di Dante Pessina, promessa del ciclismo degli anni cinquanta (‘il dio di Roserio’ appunto) e quello del suo gregario Sergio Consonni, divenuto ‘scemo’ per aver battuto la testa su un sasso in una caduta procuratagli intenzionalmente dal ‘dio’.
E proprio su una pietra si posa la prima luce di scena, calda e carezzevole, dello ‘studio’ che Fabrizio Gifuni ha dedicato al primo capitolo de Il dio di Roserio. Ma non si ferma qui: a essere illuminati sono anche i segni iconici delle pagine di Testori, ruote e bicicletta, relitti di una tempesta che il monologo interiore di Consonni, al quale l’attore romano ha dato splendide voci, fa riaffiorare costantemente. Viene poi rischiarato il lato opposto dello spazio scenico – un rettangolo bordato di bianco, simile a un ring pronto ad accogliere la lotta –, dove si trovano una sedia e un leggio, indicazione del qui e ora dello spettacolo-lettura; infine, una seconda sedia, centro dello spazio, dove tutto inizia e termina.
È in questo silenzio pieno, tra parti di bicicletta smembrate e gettate a terra, che entrano le gambe di Gifuni a disegnare al rallenty l’ampia circolarità di una pedalata. Solo le gambe, sineddoche dell’attore intero, perché il movimento ha una tale forza evocativa da assorbire ogni altra parte del corpo. E la stessa forza si ritrova poco dopo, quando raggiunta la sedia centrale, Gifuni fa cadere il braccio dall’alto in un gesto che ha la nettezza di una lama che fende il ‘prima’ e il ‘dopo’ della caduta del Consonni. È questo gesto che introduce la sua voce ‘scema’, fatta di inciampi del pensiero, intrecci di sentimenti, nuove fatiche, una voce che avvia gli ondivaghi e frenetici percorsi in cui la memoria spezzata e il tempo presente scivolano l’uno nell’altro e si confondono.
Gifuni restituisce la potenza visiva della parola di Testori, crea le immagini dei muscoli in teso movimento, del sudore, del limone stretto tra i denti del Pessina, segno della determinazione spinta al massimo. Attraverso gli arditi e intensi flussi di trasformazione del suo corpo e della sua voce, esprime le vertigini della stratificata lingua testoriana, con i suoi squarci dialettali destrutturanti, la narrazione della tensione dei due protagonisti che si trasfigura nel paesaggio, nella montagna e nel lago, con il suo “venir su, oltre le case”, poi d’un tratto andar “giù, oltre il Dante”. Trova il giusto tono per riportare sul palco le cadute e le risalite che svelano l’uomo di questo primo Testori, in equilibrio instabile tra il desiderio ardente e combattivo di vivere e condividere la propria “vitalità animale” (E. Vittorini 1988, I risvolti dei «Gettoni») e il doloroso sentimento della perdita violenta di questa primordiale energia fino alla necessità di fare i conti con le diverse facce della solitudine.
Come negli altri spettacoli di Gifuni dedicati a testi letterari (qui la recensione pubblicata su Stratagemmi di Lo straniero. Un’intervista impossibile), anche in questo caso risulta palpabile la sinergica e corale ‘volata’ del pubblico insieme all’artista, sostenuta anche dal luogo, quel Teatro Franco Parenti erede del Salone Pierlombardo, che inaugurò la sua storia proprio con l’Ambleto di Testori, (Storia di un sogno. Dal Salone Pierlombardo alla città della Luna, 2003).
Ne Il dio di Roserio la relazione con gli spettatori è stata creata da Gifuni fin dal breve prologo che ha preceduto lo spettacolo, in cui l’attore ha invitato il pubblico a “rivivere insieme” il primo capitolo testoriano. Nessuna retorica in questa esortazione, nessun compiacimento intellettualistico nelle poche parole sul testo di lì a poco in scena e sulla sua scelta di attore di ‘agire’ i libri, di cercarne e riportarne ‘i corpi’ e ‘le voci’, ma generosità autentica e ‘studium’.

Raffaella Viccei

 

Il dio di Roserio. ‘Studio’ sul primo capitolo
di Giovanni Testori
con Fabrizio Gifuni

visto al Teatro Franco Parenti di Milano_ 3-6 maggio 2017