Chi sono lei e lei?
Le due sorelle di Lei Lear si presentano parlando all’unisono, sovrapponendo le loro voci, e così accadrà sempre durante tutto lo spettacolo. Stupite dal non essere riconosciute dal pubblico, sono reduci dal dramma shakespeariano, rimaste adesso a consumarsi in un battibecco senza tregua. Forse sono Anastasia e Genoveffa, le crudeli sorellastre di Cenerentola? O piuttosto le gemelle di Shining, cresciute ma ancora mano nella mano, incapaci di sciogliere le loro catene? Poco importa che la vicenda si ambienti, come nel film di Stanley Kubrick, negli angoscianti corridoi di un hotel sperduto tra le montagne del Colorado, o in un castello britannico: quel che conta, quel che trapela dal loro parlare, è che sono rimaste sole, sovrane del nulla.
Scritto e interpretato da Chiara Fenizi e Julieta Marocco – anche registe insieme ad André Casaca – Lei Lear ha la propria origine in un momento di isolamento, quello della pandemia: ed è forse questa la ragione per cui la sintonia, finanche la simbiosi, tra le due protagoniste appare così tangibile, in grado di restituire quella prossimità tra i corpi di familiari e conviventi che fu il contraltare di una distanza sociale resa indispensabile dal virus.
Lo spettacolo trae tutta la sua forza dal duo comico che, a braccetto per oltre cinquanta minuti, regge abilmente un dialogo serrato, nel quale la sincronia e l’identità delle battute lasciano comunque emergere le individualità dei personaggi. Goneril e Regan sono adesso personalità che si cannibalizzano vicendevolmente; il loro non è un monologo a due voci, quanto un dialogo con lo spettatore, al quale tentano di assegnare ruoli immaginari, o a cui impartiscono lezioni di inglese e di omicidio. Tra il pubblico individuano così gli antichi protagonisti del dramma, una mother, un brother, e una soret’ «che si capisce meglio», ma anche una pen e una pencil e un dog che mangia il cat, o che dovrebbe farlo. Eppure il pubblico non obbedisce, nessuno le ascolta, non un Dio al piano superiore, né un regista fuori scena. Oltre il palco incombe una Tempesta, a ricordarci non solo altri testi e altre vicende, quanto quel senso di inquietudine che sembrano provare; dentro il teatro, invece, permane solo un vuoto denso di fantasmi.
«Una si fa in due e lui niente!» esplodono, nella rabbia verso il padre: sono due vecchie signore livorose, che indossano vestitini anni Settanta e attraversano epoche e giorni immutabili. E in questo tempo lungo e costante non fanno altro che parlarsi addosso, punzecchiarsi, prendersi gioco l’una dell’altra e della morte, percepirsi insopportabili e reciprocamente indispensabili.
Allo spettatore che le ha viste, in passato, fronteggiare Cordelia, non rimane che chiedersi cosa resti oggi della loro malvagità: sono soltanto ombre, clownesche e petulanti, delle donne che furono.
Infuria il vento: c’è forse tempo per tentare di uccidersi con una dose di cianuro, e poi per lottare, spogliarsi e restare in biancheria, ricomporsi colte dal pudore. Non c’è trama né racconto: tutto è ormai morto, ucciso dalle due donne e dallo scorrere del tempo. Questa è la lezione che vogliono lasciarci? Al pubblico restano le tante domande che Goneril e Regan continuano a rivolgere, in un soliloquio a due voci: e con un ultimo interrogativo, infine, si congedano.
«Sei morta?».
«Ottima domanda!».
Valeria Cirillo
in copertina: foto ufficio stampa
LEI LEAR
di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco
regia André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco
consultor Francesco Ferrieri
coproduzione Scarti, Teatro C’Art e Muchas Gracias
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2