Nel dedalo di viuzze medievali di Spoleto è un ininterrotto fiorire di eventi, diversi per qualità e portata innovativa, ma comunque rispondenti a un’idea di cultura diffusa, armonicamente coniugata al territorio e capace di attrarre un pubblico ampio e differenziato per età e interessi. Poi, nella vasta messe di proposte fra prosa, lirica, musica, danza e arti visive, ogni spettatore può costruirsi il proprio cartellone, sulla base di passioni consolidate o di ispirazioni istantanee.
E forse è proprio questo il filo conduttore della cinquantanovesima edizione del Festival dei Due Mondi, la nona dell’era Giorgio Ferrara, che ha raccolto l’impegnativa sfida di riportare la manifestazione ai fasti della gestione Menotti, puntando più che sulla sperimentazione, sui talenti consolidati: da Emma Dante a Moni Ovadia, da Tim Robbins a Serena Senigaglia, da Eimuntas Nekrosius a Robert Wilson.

Restringendo il focus alla prosa italiana della giornata del 24 giugno, due pièce, Il Ciclope e Il Casellante – rispettivamente per la regia di Enzo Siciliano e di Giuseppe Dipasquale – sono accomunate dall’idea di una Sicilia archetipica, luogo dell’anima senza tempo che congiunge idealmente Euripide, Pirandello e Camilleri: non a caso già il drammaturgo di Girgenti aveva tradotto Il Ciclope nel dialetto isolano.

E proprio la lingua è ‘il grimaldello’ con cui Enzo Siciliano si introduce nel mondo di Euripide: la ‘traduzione macaronica’ dell’unico dramma satiresco giuntoci integro riprende in tono parodico la celebre vicenda di Ulisse e Polifemo, narrata nel libro IX dell’Odissea. Il pastiche di dialetti centro-meridionali permette a Francesco Siciliano, regista e unico attore in scena, di dar corpo ai diversi personaggi: il Ciclope, Ulisse, Sileno e il coro, non più di satiri, ma interpretato da un cantastorie che commenta e raccorda le varie scene.
Su un palcoscenico spoglio, caratterizzato solo da una sedia e da qualche cesto di vimini in disordine –quasi un accenno di discarica chiamato a sostituire il brullo paesaggio etneo – il monologo si scioglie in una serie di dialoghi concitati: la voce cavernosa di Polifemo si alterna al conversare urbano del capitano greco, che, da uomo di mondo, usa dapprima la lingua della civiltà dominante (l’inglese) per poi passare al dialetto locale nel tentativo di farsi comprendere dal suo primitivo interlocutore.
Pur in secondo piano rispetto all’originale euripideo, il vecchio Sileno – che rappresenta l’elemento dionisiaco tipico del genere – introduce l’azione rimpiangendo i bei tempi andati, quando poteva godere appieno dei doni di Venere e Bacco. Proprio il desiderio del vino è la chiave di volta dell’intera vicenda: Sileno si fa corrompere dal nuovo arrivato pur di avere in cambio un otre colmo della preziosa bevanda, che poi farà ubriacare e addormentare il pastore antropofago, con le note conseguenze dell’accecamento e della fuga dei greci superstiti. Per una volta, è l’acume e non la forza bruta ad avere la meglio.
Lo spettacolo, che ha debuttato nel 2009, si regge sull’abilità di Siciliano, mattatore poliedrico che ben conosce i meccanismi del comico e reinterpreta con generosa fisicità e fare affabulatorio i tradizionali cantastorie siciliani.

Prima di passare all’altro spettacolo ‘a tema sicilianità’, vale la pena lasciare per un attimo la prosa e ricordare che un sileno è anche protagonista dell’installazione Persona, di Romeo Castellucci. Prodotta dalla Societas Raffaello Sanzio, viene ideata per la Quadriennial in Prague del 2011 e poi messa in scena in diversi festival italiani ed esteri. Nel buio di un rifugio anti-aereo recentemente recuperato nelle mura della città, una maschera in bronzo, modellata su un papposileno (o sileno anziano) ellenistico dal sorriso beffardo e sprezzante, getta uno sguardo inquietante sullo spettatore. A questo si aggiunge il rumore assordante prodotto da un congegno meccanico ad opera di Scott Gibbons: è il rumore della paura, forse la stessa provata da coloro che ascoltavano con terrore le sirene annuncianti i bombardamenti. O più semplicemente il terrore che la maschera-persona prova di fronte alle atrocità delle guerre contemporanee.

Ed è proprio la guerra a fare da sfondo a Il Casellante, lo spettacolo con cui Giuseppe Dipasquale torna a Camilleri, dopo il successo della trasposizione teatrale del Birraio di Preston. Considerato la seconda tappa della ‘trilogia mitologica’ iniziata con Maruzza Musumeci, Il Casellante, tratto dall’omonimo racconto dell’autore di Montalbano, debutta nel 2015 al Padiglione Italia dell’Expo per poi trovare la versione definitiva proprio in occasione del Festival dei Due Mondi.
L’opera trasfigura una vicenda ambientata nella Sicilia del Ventennio in una storia universale, che narra il dolore di una maternità negata, intrecciata alle ferite della guerra. Nino (Mario Incudine) è appagato della sua vita, semplice e serena: una moglie innamorata (una intensa e convincente Valeria Contadino), il tranquillo lavoro di casellante sulla linea Vigata-Castelvetrano, le domeniche dal barbiere (Moni Ovadia) a suonare il mandolino con l’amico Totò. E sono proprio le scene ambientate nella bottega del coiffeur, ove troneggia una gigantesca poltrona, a risultare fra le più riuscite dello spettacolo: il carattere mattatoriale di Moni Ovadia si sposa perfettamente alle piacevoli incursioni musicali e alla lingua di Camilleri, con il suo miscuglio di dialetti e neologismi.
Il fascismo rimane sullo sfondo fino a quando il tronfio cavalier Ingargiola non manda in galera Nino, reo di aver adattato al ritmo della mazurca le note di Giovinezza. Intanto, la guerra inizia a farsi sentire: incursioni aeree e scorribande di soldati mettono a soqquadro l’esistenza senza tempo dei nostri personaggi. Durante l’assenza del marito, Minica subisce una violenza che le fa perdere il bambino che aspettava e le impedirà di averne altri, provocandone la pazzia. La tragedia troverà una soluzione nella metamorfosi: la donna, novella Dafne, si trasforma in albero nel tentativo di dare frutti. E assistita dall’amorevole e sollecito Nino, vi riuscirà, trasformando il lutto in  nuova vita e la sofferenza in rinnovamento.
Con l’icastica immagine di un alloro che accoglie un neonato fra le fronde si chiude uno spettacolo di due ore e mezzo, che dopo qualche incertezza iniziale, avvince e fa dimenticare l’orologio.
Oltre ai chiari rimandi alla classicità, si legge in nuce il Pirandello dell’Innesto, a conferma della profonda ‘sicilianità’ della pièce. Dipasquale trae dall’opera di Camilleri una drammaturgia fortemente espressiva, comica e tragica al tempo stesso, che fonde con sapienza le parole dello scrittore con il canto e la musica originale di Mario Incudine.

Simona Lomolino