di Hanoch Levin
regia di Andrée Ruth Shammah
con Carlo Cecchi
visto al Teatro Franco Parenti di Milano_ 28 ottobre-21 dicembre 2014.

Si ha l’impressione di essere in un quadro di Edward Hopper, quando si entra nella sala Tre del Franco Parenti: le finestre, sibillina terra di confine tra desiderio di libertà e attaccamento all’interno, il letto bianco scolpito dalla luce, i cappelli, l’uomo e la donna chiusi in una stanza.
Appena Yona e Leviva iniziano a parlare, l’eco della pittura si allontana e cede il posto alla travolgente poesia teatrale di Hanoch Levin, protagonista del teatro israeliano contemporaneo, scomparso nel 1999: i due protagonisti non hanno nulla delle enigmatiche coppie sospese e silenziose di Hopper, sono invece Tu, io e la prossima guerra.
“Quando dormiamo siamo in tre, tu, io e la prossima guerra. Quando sorridiamo in un momento d’amore, sorride assieme a noi la prossima guerra. Quando bussano alla porta, siamo in tre, tu, io e la prossima guerra. E quando tutto sarà finito, saremo ancora in tre. Tu, io e la prossima guerra”. Questi frammenti della canzone scritta da Levin per il cabaret politico Tu, io e la prossima guerra (1968), corrosiva e tagliente risposta, con Ketchup e la contestata La regina del bagno, allo spirito bellicista e trionfalista successivo alla guerra dei Sei Giorni, trova una declinazione esistenziale e sentimentale ne Il Lavoro di vivere (1981).

“Sono perduto”, dice a se stesso Yona all’inizio dello spettacolo, toccando il cuore mentre si tira su dal letto: perduto a causa della vita coniugale ma anche dentro la vita coniugale, che per Yona è la ferocia del già noto e del non poterne fare a meno. Nel cuore della notte ha urgenza di comunicare il suo fallimento a quella che considera la responsabile, quell’“ammasso di carogna” inerte sull’altro lato del letto, quella “carne rinsecchita” che mentre lui è tra le rovine di una vita sogna di “sciare sulle Alpi”. D’un tratto, forte di anni di noia sulle spalle, Yona ribalta il materasso, la sua vita impaludata con Leviva. Scaraventa giù la moglie che -quanta delusione!- nei sogni non era sulle lontane Alpi ma lì, sotto casa, terribilmente vicina e a cercare un banale cappellino, banale come lei. “E’ stata tutta una menzogna. Mi sono fatto trascinare come un pesce morto”: Yona in 30 anni di matrimonio si è lasciato sfuggire il mistero, la bellezza, l’arte, l’aria, la vita.

Lo spartiacque del racconto è l’amico Gunkel, uno stralunato e urticante Massimo Loreto:  il suo arrivo insinua nella coppia lo spettro della solitudine, la paura di perdere il calore, l’alterazione della routine con richieste assurde e destabilizzanti. Tra queste, quella di recuperare il cappello lasciato in quella casa 15 anni prima. L’oggetto diviene così centrale nella pièce: Leviva lo sogna, Yona lo indossa quando sta per andare, Gunkel lo pretende e costringe gli altri due a impegnarsi nella ricerca. Il cappello diviene metafora dell’altrove: vagheggiato – quello di Leviva -, afferrato per un po’ con il pensiero e poi abbandonato – quello di Yona – cercato, ma non in solitaria – quello di Gunkel. Avrà il coraggio, Yona, di andare? O resterà intrappolato nel suo “lavoro di vivere” per paura della solitudine?

Torna alla mente, guardando Carlo Cecchi nella chiusura dello spettacolo, l’Edipo inchiodato nel letto de La notte a Colono (di Elsa Morante, regia M. Martone, 2013; recensione Stratagemmi). Benché nulla accomuni i personaggi di Edipo e Yona, si conferma la magnetica abilità di Carlo Cecchi nel portare il pubblico dentro la musicalità della parola, nel saper rinnovare la percezione dei significati (si noti, per esempio, l’insistenza sull’aggettivo coniugale, che pare rivelare il suo significato etimologico). Il suo protagonista “misogino, egoista, infantile, sciocco” – così nelle parole dello stesso Cecchi – lascia emergere il sarcasmo spietato, il lessico crudo e la struggente malinconia del teatro di Levin.

Molto riuscito è il gioco teatrale con l’interprete di Leviva, Fulvia Carotenuto, anche grazie a precedenti esperienze lavorative comuni (Morte di un matematico napoletano; Lu curaggio de nu pumpiere napulitano) e alla condivisa passione per il teatro di De Filippo. Forse proprio in omaggio alla tradizione teatrale partenopea Carotenuto porta in Levin una discreta coloritura napoletana di alcune parole, che aggiunge un ulteriore tocco di musicalità alla ricordata, rilevante componente musicale del teatro del drammaturgo israeliano: componente valorizzata anche dall’ottimo sguardo registico di Andrée Ruth Shammah, essenziale, penetrante, solo apparentemente invisibile.

Raffaella Viccei