Nell’antica Lebadeia, in Grecia, si trovava un luogo oracolare che era spazio dell’oblio e della memoria, metafora della morte e della vita, l’antro di Trofonio. Chi vi entrava moriva, ma non definitivamente: dopo la permanenza nella grotta, che trasformava in modo profondo e in parte incomunicabile, si compiva il percorso inverso e si tornava alla vita. Per accedere all’antro e uscirne bisognava bere a fonti di natura opposta e complementare, Lete (oblio) e Mnemosyne (memoria). Dimenticare per ‘morire’ e, superato il confine che riportava alla vita, ricordare ciò che si sarebbe visto e udito in quel luogo separato, una dinamica che torna alla mente visitando il Memoriale della Shoah di Milano, sorto per dare memoria del buio ‘antro’ della Stazione Centrale. Qui, tra il 1943 e il 1945, tanta umanità, soprattutto ebraica, è stata costretta a varcare un ignoto limite, strappata con inumana ferocia da un luogo familiare e ammassata nei 20 convogli, organizzati dall’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), per essere deportata verso un non-luogo, dove ogni traccia di vita e di umana pietà veniva sistematicamente calpestata, umiliata, annientata: Auschwitz-Birkenau e i Konzentration Lager.
I pochi sopravvissuti a quei viaggi di morte hanno voluto e dovuto ricordare per sé, per le proprie famiglie, smembrate e per lo più cancellate, per gli uomini che sono e che saranno, e qualcosa hanno dovuto dimenticare per sopravvivere all’orrore e poterne essere attivi e generosi testimoni nel tempo. Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a 13 anni, è tra questi. “Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel ventre dell’edificio … SS e repubblichini” – racconta Segre – “ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio del sotterraneo della stazione … Fu silenzio in quel vagone in quegli ultimi giorni … Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza degli ultimi momenti. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo il nostro amore come un ultimo saluto. Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno”.
Ad alcuni decenni di distanza dalla promulgazione delle leggi razziali (1938) e dalla fine delle deportazioni (1945), si è voluto far conoscere, dunque, il macabro luogo icasticamente raccontato dalla Segre e a tal fine è stato realizzato il Memoriale, con un progetto firmato dagli architetti Annalisa de Curtis e Guido Morpurgo. La dinamica lettura architettonica di questo spazio e le proposte in esso accolte intendono restituire viva la memoria della Shoah, senza lasciare adito a ‘buchi’ o damnationes da parte di sempre solerti ‘Ministeri della Verità’ – nel senso dato da Orwell (1984).
In due date emblematiche, 8 e 11 settembre, attori del Piccolo Teatro e musicisti del Conservatorio hanno diffuso nel Memoriale significati essenziali di questa memoria attraverso le parole dei sopravvissuti, i silenzi, la musica e in consonanza con la “matericità sofferta e in qualche modo difettosa” dei materiali originali del “ventre oscuro” della Stazione, il ferro e il cemento valorizzati nella loro brutalità, recuperati per dare voce alla natura e funzione del luogo come aveva fatto Quasimodo per Auschwitz, cantando “la ruggine dei pali / e i grovigli di ferro dei recinti”.
Gli spettatori sono stati accompagnati nelle tappe di un viaggio, alcune delle quali hanno avuto le caratteristiche di uno scavo ‘archeologico’, quindi anche ‘fisico’, nella memoria. Nello sfogliare gli strati del non senso del male nella storia e dell’atroce indifferenza, nel tentativo di ricostruirne la genesi e lo sviluppo, anche il corpo dello spettatore è stato coinvolto.
Guidati ad entrare in uno dei vagoni strumento di deportazione, in molti, gli uni vicini agli altri – con una prossimità quasi disturbante – era impossibile non sentire nel corpo una eco di quel sinistro smarrimento che prese i deportati incomprensibilmente stipati come merce senza valore per una destinazione sconosciuta. Quasi a contatto con le pareti del vagone, si percepiva con il corpo la memoria che anche le cose conservano. Le parole di chi in quel vagone era stato davvero, nella voce di Sergio Leone, hanno trascinato verso altro orrore, amplificato dal rumore imperturbabile dei treni che sopra alle nostre teste partivano e arrivavano in Stazione Centrale.
Gli spettatori hanno raggiunto poi le ‘Lapidi dei convogli’, dove numeri e lettere fissano in terra il destino di uomini mai più tornati, mentre i nomi di tanti votati allo sterminio e dei pochi salvati venivano proiettati dal ‘Muro dei Nomi’, doveroso risarcimento all’onta dell’eliminazione dell’identità, perpetrata dal nazismo con il crudele scherno dei numeri senza storia delle matricole.
In questa parte del Memoriale una giovane del Conservatorio ha suonato il violino sopravvissuto a Birkenau. La musica è stata un modo diverso, rispetto alle parole, per ricordare una donna che non ha fatto ritorno – il suo nome era Eva Maria -, il fratello cui affidò il violino, il loro legame oltre la morte. Un cartiglio, trovato dentro lo strumento, riporta una semplice partitura musicale, in cui le note, alternate ai numeri di matricola del fratello di Eva, sono coronate dal disegno di un filo spinato e da ben più potenti parole di resistenza: Der Musik macht frei, in ironico controcanto al celebre ingresso di Auschwitz, è una postuma e durevole dichiarazione di una libertà possibile nonostante il campo di sterminio.
L’ultima tappa del viaggio è un momento privilegiato per una meditata rielaborazione di ciò che è stato. Nella struttura conica, essenziale, che racchiude il ‘Luogo di Riflessione’, sediamo attorno all’attrice Franca Nuti e, nel silenzio che precede la sua lettura, si avverte una strana quiete. “Voi che vivete sicuri /Nelle vostre tiepide case”, la poesia di Primo Levi e parti de Il canto di Ulisse (da Se questo è un uomo) inducono ad altre riflessioni sulla necessità storica del non dimenticare e della difesa della dignità, sul dovere della sua salvaguardia persino e ancor più nell’inferno di Auschwitz. Con il metaviaggio di Ulisse, con il coraggio del “folle volo” verso “virtute e canoscenza” in un luogo dove si aveva solo diritto ad essere anonimi “bruti” fra i bruti, termina il viaggio-spettacolo nel Memoriale.
Per uscire da questo luogo si deve ripercorre a ritroso parte dello spazio e tornare al punto di partenza dove, su un grande muro di pietra scura, è incisa la parola ‘INDIFFERENZA’, complice occulta della Shoah. Grazie al percorso compiuto, questa parola viene riletta con più consapevolezza e si è spinti a interrogarsi sulla sua attualità. Le risposte non tardano. Sono visibili e tangibili già all’esterno della Stazione Centrale, nelle nostre reazioni di fronte a quanti vivono ai margini della cosiddetta società civile, sono nei comportamenti inumani e agghiaccianti documentati con lucidità nel recente film Austerlitz (si leggano le riflessioni di Rinaldo Censi)
Se il senso ultimo dello spettacolo nel Memoriale è stato un invito a praticare, come individui e collettività, una memoria storica e culturale vitale, attiva, sussistente al fine di interpretare correttamente il presente e intervenire con saggezza e coraggio nella progettazione del futuro, accogliere l’invito vuol dire anche riflettere sulla parola, sul suo valore, sulla sua incidenza, sul suo potere
Raffaella Viccei