La Fuga di Gao Xingjian
regia di Lorenzo Montanini
visto al Piccolo Teatro Grassi nell’ambito di Tramedautore _ 18 settembre 2015
L’immagine della locandina di Tramedautore 2015 illustra in modo efficace lo spirito di incontro Italia-Cina che ha caratterizzato la programmazione del festival: come fossero pietanze da servire, Arlecchino offre i monumenti-simbolo del Bel Paese a uno snello gigante – tipico cappello e dragone ricamato – che scavalca la Muraglia, lo sguardo puntato al futuro.
Dalla rassegna non poteva mancare il drammaturgo Gao Xingjian, Premio Nobel cinese (2000), figura poliedrica di artista totale ed emblema della ribellione contro il regime di Pechino. Costretto alla “rieducazione” durante la rivoluzione culturale, negli anni ‘80 viene ostracizzato per “inquinamento spirituale” a causa del suo teatro sperimentale che rompe con la linea realista gradita al partito per introdurre in Cina le novità del teatro dell’assurdo. Nel 1987 si rifugia esule volontario in Francia, inaugurando una prolifica fase creativa, in piena libertà.
All’indomani del massacro di piazza Tienanmen (1989), la voce di Gao si leva durissima. Nasce allora La fuga, che segna lo strappo definitivo con la patria, dove il partito mette all’indice l’intera sua opera. Il testo però delude i committenti Usa, che vorrebbero una più viva connotazione politica, ma Gao, strenuo difensore della propria indipendenza creativa, non cede: La fuga si affranca dalla cronaca politica e mira a una più ampia visione universale.
Tutto ruota intorno all’antitesi interno/esterno. Fuori: una piazza senza nome, pura presenza sonora, dove si compie la Storia, con i suoi massacri di innocenti sull’altare del Potere liberticida (a Tienanmen come in qualsiasi altra parte del mondo). Dentro: un non-luogo, un magazzino, casuale rifugio per i tre anonimi protagonisti. La scena è vuota, grigia e per i primi dieci minuti tutto si svolge al buio.
Lo Studente (la sua voce, nella lettura scenica firmata da Lorenzo Montanini, è quella di Diego Valentino Venditti) è imbevuto di candide velleità eroiche, sogna l’utopia di un mondo nuovo e libero che sorgerà dal sangue del popolo in rivolta. Di contro, l’Intellettuale (un convincente Mirko Soldano) è disilluso: la Storia è scritta dal potere e la lotta per la Libertà è un suicidio collettivo inutile. “Ciò che resta è la fuga”, cioè il rifiuto di collusioni con la politica autoritaria, come pure di maschere engagées e di compromessi con l’ideologia, che macchia la purezza originaria e l’indipendenza del pensiero. Una fuga lacerata comunque dal senso di colpa per aver scelto la sicurezza e la distanza dagli eventi.
Fra i due, la Studentessa (Carlotta Piraino), che in piazza era la voce della rivoluzione; ora vorrebbe rompere gli stereotipi, ma ricade nel circolo vizioso dei ruoli tradizionali attivando un gioco sensuale di duplice seduzione che a tratti risulta quasi una stonatura parodica. L’armonia non è di questo mondo, sembra dire Gao: se fuori il massacro ha i colori della politica assassina, dentro si riproducono rapporti perversi di prevaricazione ed è impossibile fuggire davvero da se stessi.
L’impronta drammaturgica è occidentale (toni di assurdo alla Beckett e claustrofobia kafkiana), ma alla Cina fanno pensare i frequenti passaggi dal realistico all’onirico, tratto caratteristico della prosa e anche del pennello di Gao, esperto delle alchimie dei colori, dei trapassi e delle evanescenze. Lo stesso rifugio dei protagonisti appare come uno uno spazio-simbolo, dove ci si può concedere istanti di tempo rarefatto e dilatato in contrasto con i ruggiti del reale: nella felice invenzione del regista, la coppia imita i volteggi di Fred Astaire e Ginger Rogers sulle note di Cheek to cheek (1935).
Il quadro finale è di grande potenza allegorica: mentre la porta sta per cedere all’irruzione dei militari, i protagonisti restano immobili, immersi “in un’acqua rossastra come il sangue”, riflesso della morte annunciata che ora si compie sotto la macina spietata della Storia.
Gilda Tentorio