di Domenico Pugliares
regia di Renato Sarti
visto al Piccolo Teatro di Milano_8-12 Gennaio 2013
La giustizia, per i greci, si chiama dike. I linguisti ci ricordano che la parola ha a che fare con il verbo deiknumi, cioè pronunciarsi, esprimere sentenza. La giustizia è perciò l’esito di un dibattito, di un’analisi, di un processo: ne risultano una parte tutelata e una parte offesa.
Proprio di questo percorso dialettico racconta Il Pantano, un testo di Domenico Pugliares. Autore e attore attivo da anni presso il Teatro della Cooperativa, Pugliares sperimenta qui per la prima volta il ruolo di drammaturgo puro, lontano dalla regia e dalla scena.
Una donna con un passato in manicomio (Cecilia Vecchio) è accusata di aver assistito senza reagire al suicidio della figlia. Il pubblico partecipa ad un anomalo rito di giudizio, che si svolge – come sarebbe piaciuto ai greci – interamente su binari dicotomici: c’è Dio (Gianfranco Berardi), c’è il Diavolo (Daniele Timpano) e ci sono due parti in lotta nella coscienza della donna interpretate simmetricamente dagli stessi attori. I temi trattati (il suicidio, il labile confine tra bene e male, la perdita di un figlio) non sono leggeri e non è certo la prima volta che vediamo personificate in scena la buona e la cattiva coscienza di uno stesso personaggio; ma lo spettacolo – grazie anche alla puntuale regia di Renato Sarti, che lavora per sottrazione e capovolgimenti – riesce a non cedere alla retorica e a offrire decisi scarti di registro. Ed ecco allora che i due litigiosi inconsci possono diventare colorati teletubbies (esilarante la pars destruens ingiuriosa e saltellante del bravo Timpano), mentre Dio/Berardi, voluttuosamente sdraiato in proscenio, si compiace dei propri “pippotti” e confessa che potrebbe andare avanti “per un’eternità” ad ascoltarsi. Ma la cifra surreale di molti dialoghi e lo humour demenziale proposto dal testo e sottolineato dalla regia non permettono allo spettatore di dimenticare che si parla di vita e di morte, e che definire la colpa è questione complessa. A ricordarlo è anche la scena essenziale ed evocativa di Carlo Sala: un piccolo parco giochi – un’altalena, una giostra, un bilanciere – richiamo all’infanzia della figlia suicida ma anche trasparente simbolo di una giustizia che oscilla, gira, innalza e abbatte.
Il testo a tratti si avviluppa e si espande troppo, il ritmo qua e là si inceppa (lo spettacolo è destinato forse a trovare nelle repliche post debutto un maggiore equilibrio), ma non è cosa da poco scoprire una drammaturgia che abbia il coraggio di sporcarsi le mani nel pantano dell’essere umano senza limitarsi al divertissement. E vedere un nuovo autore nella programmazione del Piccolo Teatro pare un ottimo segnale.
Maddalena Giovannelli