Con Semplice danza in levare, creazione coprodotta da Sosta Palmizi e QuaLiBò, Maristella Tanzi ricerca e indaga uno spazio-tempo immaginario in cui il movimento e il gesto danzato si riducono all’essenziale. Abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista, a margine della presentazione del lavoro all’interno della rassegna aretina Invito di Sosta.

Il lavoro, come leggiamo dalla presentazione, nasce dal «desiderio di rigenerare il gesto danzato e ripulirlo dal racconto, conservando il vissuto che in qualche modo lo ha generato». In che modo hai lavorato sul tuo corpo per restituire al pubblico questa idea?

Devo innanzitutto dire che questo lavoro si differenzia da molte creazioni precedenti: io ho quasi sempre cercato di lavorare con il pubblico attraverso un approccio metateatrale e una cifra stilistica più ironica, coinvolgendolo e rendendolo parte di ciò che facevo, anche per stimolarlo a una riflessione critica. Con Semplice danza in levare ho percepito invece un’estrema necessità di ripulire tutto, di eliminare qualsiasi tipo di narrazione, interazione diretta o temperatura ironica. Durante la costruzione coreografica ho effettuato una serie di ricerche sul paesaggio che mi interessava creare e mi sono sottoposta anche a procedure di studio e di composizione molto specifiche: ho immaginato sentieri e percorsi diversificati, accidentati o semplici, in discesa o in salita, ma anche diverse densità d’aria in cui immergermi. Il tentativo era quello di portare il mio corpo in una determinata situazione e in una precisa temperatura emotiva, così da accompagnare lo spettatore in una dimensione più intima, notturna, innescando con lui una relazione empatica e facendo aderire il suo sguardo alla mia stessa pelle.

In qualche modo hai voluto dimostrare che le sensazioni vissute da te in prima persona sono in realtà sensazioni comuni a tutti.

Certamente il tema indagato è abbastanza personale e doloroso… Anche quando rimetto in prova il lavoro mi risulta faticoso riattraversarlo. È difficile trovare una giusta misura nell’esecuzione e nell’interpretazione da offrire allo sguardo altrui, anche perché non mi interessa che all’esterno arrivi una determinata grammatura. Osservando lo spettacolo si percepisce una grande sensazione di solitudine, un dialogo con presenze invisibili… Credo che comunque in questa condizione sia facile riconoscersi, dirsi «sì, anch’io ci son passato, ci passo o ci passerò». Reputo comunque poco interessante parlare di sé per il semplice gusto di farlo: un lavoro di danza è per me interessante se riesce a trovare un aggancio con l’umanità, permettendo agli altri di rispecchiarvisi.

Tu sei un’artista associata a Sosta Palmizi, realtà che ti ha sostenuta nella produzione del lavoro. In che modo si è realizzato questo contributo al suo sviluppo?

In un modo molto romantico, se posso definirlo così! Semplice danza in levare ha avuto una gestazione molto lunga. Dopo essermi dedicata molto tempo più alla formazione del pubblico che alla creazione, ho sentito la necessità di raccogliermi e avere uno spazio in cui lavorare e creare… In maniera anche abbastanza naïf, scrissi una mail a Sosta Palmizi chiedendo se fosse possibile avere un periodo di residenza artistica da loro. C’è da dire che io avevo già lavorato con Giorgio Rossi in due produzioni dal 2002 al 2006, e ritornare ad Arezzo nel giugno 2017, quindi dopo un lasso di tempo molto lungo, è stato davvero emozionante… Quasi alla fine del mio periodo di lavoro Raffaella (Giordano, ndr) e Giorgio assistettero a un filato: è stato in quell’occasione che hanno deciso di sostenere il progetto. Non posso dire che ci sia stato un tutoraggio vero e proprio, ma ricordo ancora i suggerimenti, i commenti e gli incoraggiamenti ricevuti da parte loro nei giorni successivi.

Giorgio Rossi e Raffaella Giordano appartengono a una generazione della danza ormai storicizzata, mentre tu rappresenti una generazione di danzatori/coreografi emergente. Trovi ci siano analogie e/o differenze tra queste due diversi gruppi?

In verità non so quanto io possa ritenermi una coreografa emergente… In qualche modo appartengo a una generazione intermedia: per il rigore e la cura che applico nella costruzione coreografica mi sento molto vicina alla generazione di Giorgio e Raffaella, anche se questo aspetto non risulta molto funzionale nel mercato della danza italiana odierno, che richiede invece di produrre molto rimanendo sempre visibili. Ciò che invece mi discosta dalla generazione di Sosta Palmizi o di altre compagnie come quella di Castello o Sieni è la mia idea di corpo: nei miei lavori e nella mia danza il corpo vale di per sé e non deve necessariamente avere un significato narrativo o concettuale. Questo è riconducibile anche alle diverse tecniche di riferimento: mentre la formazione di Sosta Palmizi è molto più vicina a quella del teatrodanza – assolutamente riveduto e corretto, reso veramente personale e con una tensione narrativa maggiore – o di Carolyn Carlson (quindi a una serie di pratiche che portano a sentire il corpo in maniera diversa), il mio allenamento è molto più vicino al flying low di Zambrano, una tecnica che porta il corpo quasi in uno stato di emergenza animale.

Il tuo lavoro e la tua esplorazione coreografica risultano intimi, vicini alla contact improvisation. Ci sono o ci sono state figure di riferimento che, durante il tuo percorso formativo, hanno influenzato la danza che oggi indaghi?

Sicuramente devo tantissimo a Giorgio Rossi: il periodo di lavoro con lui è stato per me fondamentale dal punto di vista formativo… Io ero giovane e arrivavo da un territorio in cui non c’era assolutamente nulla, per cui anche semplicemente osservarlo creare era per me un regalo. Devo poi ringraziare Lisa Masellis e Ornella D’Agostino, due donne che mi hanno offerto numerosi punti di vista e idee. Lisa è stata la prima grande generatrice di incontri e occasioni; Ornella D’Agostino è stata poi una formatrice pazzesca: grazie a un suo progetto di formazione interdisciplinare che metteva in rete più città italiane – tra cui Bari – ho avuto la possibilità di sperimentare nuovi percorsi, di conoscere moltissimi danzatori e artisti e di essere guidata per la prima volta nella composizione coreografica. Devo molto anche a maestri di matrice nord europea e soprattutto David Zambrano. Con lui ho conosciuto una modalità di movimento che da subito ho sentito affine al mio corpo: il flying low and passing through allena a digerire velocemente tutte le informazioni che arrivano dall’esterno, educando a un movimento organico e creando, nella pratica, un’idea di lavoro di squadra e di corpo comune con gli altri danzatori.

Tu dedichi molto tempo anche alla formazione, soprattutto in territorio pugliese. Qual è l’idea di movimento che cerchi di trasmettere ai futuri danzatori?

Io lavoro sia con amatori – che mi sorprendono sempre con soluzioni e strategie incredibili! – sia con semi professionisti e professionisti. In entrambi i casi cerco di eliminare un diffuso preconcetto rispetto alla danza contemporanea, e cioè che tutto ha sempre uno stampo serioso o legato al sacrificio. Quando insegno cerco invece di mettere le persone in una condizione di agio e divertimento: mi piace trovare delle strategie specifiche per far capire che ogni corpo è bello e che può essere significativo a modo suo, che può raccontare qualcosa e che non deve per forza rientrare in standard estetici imposti dall’esterno. Sicuramente è importante anche soffermarsi sulla funzionalità e l’esattezza del gesto, perché è fondamentale, quando si compone, utilizzare i movimenti necessari e specifici per il contenuto che si intende trasmettere; spesso si dice che la danza contemporanea stia tutta nell’interpretazione del pubblico, ma non è proprio così: vanno disseminati accuratamente gli indizi per condurre lo spettatore esattamente nella situazione in cui lo si vuole portare.

I danzatori cercano di scoprirsi interpretando ciò che dicono i coreografi, ma allo stesso tempo hanno anche bisogno di creare qualcosa per sé stessi. Per te adesso è più forte il bisogno di creare o interpretare?

Bella domanda… devo dire che a me piace molto stare al servizio della visione di qualcun altro, soprattutto se sento e vedo dall’altra parte un certo rigore e molta chiarezza nel lavoro. Però, a dirti la verità, io credo di funzionare meglio come autrice. Io mi reputo una persona molto generosa, ma so anche di non essere un’interprete perfetta, capace di fare tutto… Ad ogni modo credo che la vocazione autoriale sia in me più forte di quella da interprete e devo dire che questo mi è stato chiaro abbastanza presto.

Maria Rosaria Visone
foto di Maria Grazia Morea

Teatro Mecenate, Arezzo – febbraio 2020

Contenuto pubblicato nell’ambito del workshop di scrittura critica a cura di Stratagemmi e Teatro e Critica, in occasione di Invito di Sosta 2019, rassegna curata dall’Associazione Sosta Palmizi.