In seguito alla visione della replica di Au bord, spettacolo alla sua prima nazionale il 2 dicembre 2022 al Teatro Foce di Lugano, abbiamo intervistato il regista Valentino Villa e l’attrice Monica Piseddu. Appaiono emozionati e concentrati su un percorso che è appena iniziato, ci parlano del loro lavoro in continua evoluzione e aprono i propri pensieri su una ricerca nutrita e ancora molto affamata.

Quando si interpreta un testo complesso come quello di Au Bord, che tratta temi delicati e cruenti, bisognerebbe stare attenti a non tradire il messaggio originale. A proposito di questo, l’autrice del testo, Claudine Galea, ha preso parte all’allestimento dello spettacolo, magari ritoccando la drammaturgia o dando consigli per la messa in scena? Come si è svolta questo dialogo?

VV: C’è stato un primo contatto nella fase iniziale del progetto, poi abbiamo lavorato soprattutto con la nostra traduttrice, Valentina Fago. Anche io e Monica abbiamo lavorato a nostra volta sul testo, esplorandolo da un’altra angolatura, perché volevamo metterlo in scena in una maniera diversa rispetto a quanto fatto nelle rappresentazioni precedenti. Avendo preferito un monologo interiore che non rappresentasse l’autrice che parla direttamente al pubblico, ci sembrava in qualche modo di tradire la drammaturga. Quindi l’abbiamo incontrata solo quando abbiamo debuttato a Roma.

L’aspetto del linguaggio e della voce non passa certo in secondo piano, questa enfasi sulla parola è stata frutto del regista, ci sono state indicazioni precise in merito alle pause e al modo di pronunciare certe frasi? O è stata solo un’interpretazione personale dell’attrice? 

MP: Inizialmente ho ritenuto che il testo fosse troppo complesso, ma alcuni aspetti mi hanno incuriosito particolarmente. Il problema era riuscire a restituire nella recitazione un lavoro denso, che avevo letto piacevolmente ma mi sembrava impossibile da pronunciare. La soluzione è venuta da Valentino, che è stato molto bravo a farmi notare la struttura della scrittura: in Au bord c’è la prosa, c’è il verso, ci sono degli aspetti formali da tenere in considerazione. Sicuramente, come Valentino mi ha detto più volte, è un testo che quasi pretende ci sia un “come dirlo”, anche se per me sarebbe stato difficile fare un lavoro di questo tipo. Tuttavia, tento ogni sera di trovare una mediazione tra le indicazioni che il testo richiede, e tra voce e corpo, che vanno in due direzioni diverse.

Durante lo spettacolo si viene colpiti da luci innaturali e da suoni disturbanti, perfino la postura del corpo dell’interprete sembra venir attraversata da questo effetto artificiale. Quanto è voluto questo effetto disturbante?

VV: È la questione fondamentale su cui si basa tutto il lavoro: la verità delle immagini, il desiderio delle immagini di mettersi a fuoco, come in un processo fotografico. Abbiamo preso una strada che non è naturalistica: le luci sono violente, e anche il suono disturbante che interagisce e fa da sfondo si contrappone ai brani riconoscibili di Strauss o di Schubert. Tuttavia la percezione complessiva viene lasciata comunque al singolo, senza indicazioni precise. Il rapporto è sempre quello di specchio fra pubblico e palcoscenico: anche se ciò che si vede viene rifiutato, alla fine si tratta comunque di una relazione densa.

MP: E poi abbiamo pensato a una serie di filtri, reticoli e tessuti per esaltare la mediazione, per ricreare un effetto di opacità e avere la possibilità di rendersi più o meno visibili sulla scena. La necessità di creare un filtro è nata dal fatto che c’erano delle parti inascoltabili, e volevamo dare la possibilità allo spettatore di guardare con distanza e non con un’immediata vicinanza. Ci sono cose talmente forti, potenti, fastidiose – che tuttavia non volevamo addolcire – per le quali volevamo fornire, a chi ascoltava o vedeva, degli strumenti di decodifica.

La fotografia di Abu Ghraib è (forse) la grande protagonista dello spettacolo, ciò che fa muovere la narrazione, pare una scelta inusuale, dunque, quella di mostrarla solo per alcuni istanti e poi farla sparire. Come mai?

VV: L’assenza della foto ha ragioni molteplici, come dare spazio all’immaginazione dello spettatore o ancora evitare l’effetto di assuefazione all’orrore. Nel caso dell’immagine di Abu Ghraib ho deciso per tantissimo tempo di non usarla affatto, poi ho cambiato idea perché alcune generazioni non l’hanno mai vista.

MP: Le scelte fanno sempre parte di un processo continuo di sperimentazione e di riflessione. Per me è stata un’illuminazione leggere di rapporti di violenza iscritti nel nostro inconscio. Au bord gira intorno a questo rapporto vittima/carnefice, ma lo fa a qualsiasi strato o livello, riguarda tutti. La foto serve da strumento per poter riflettere su questo tema.

A partire dalla foto, infatti, lo spettacolo pare decostruire l’atto stesso di guardare, che è proprio dell’essere umano. Come ti sei posto, da regista e quindi dalla parte un po’ di chi lavora con la visione, rispetto a questo? Mettere in scena questo tema non equivale, in un certo senso, a tradire la propria professione?

VV: Decostruire un’immagine produce a sua volta delle immagini. E quello che succede sul palcoscenico è comunque una decostruzione che ha delle regole. Non a caso l’elaborazione non è stata un lavoro facile, ha richiesto molta cura. La questione legata al vedere è proprio il punto centrale. Quando guardiamo, ci sono diversi livelli a cui possiamo farlo. Noi guardiamo molto, ma spesso non rielaboriamo le immagini che vediamo, e questo è una forma di analfabetismo, una disabitudine. Questa problematicità è insita nel lavoro. Tutto ciò si moltiplica a teatro: lo spettatore si aspetta di vedere il volto dell’attrice, mentre il viso di Monica, la quale è il punto focale del discorso, è sempre nascosto dietro a una parrucca. Lo spettatore deve quindi capire che al posto di guardare passivamente deve sforzarsi di vedere attivamente, interpretando quello che sta succedendo.

Le immagini, come scriveva Stendhal, hanno un potere su di noi: ci turbano, ci emozionano, possono suscitare malessere. È interessante osservare, dunque, come l’attore abbia lavorato con il corpo in relazione – proprio – al potere di queste immagini. 

MP: Ci sono stati diversi piani di lavoro. Uno per esempio è l’aspetto da transformer: la capacità di mutare di fronte a un’immagine ricca di pathos. Con l’aiuto di un nostro coreografo abbiamo lavorato su delle immagini iconiche, che suscitano sofferenza e dolore come l’iconografia di San Sebastiano. Il lavoro è partito proprio da quei sentimenti che dovevano essere tradotti in linguaggio corporeo. 

VV: La performatività scenica elaborata per lo spettacolo è molto complessa, e frantuma quel rapporto con lo spazio che in un percorso canonico è fatto di coordinate precise. Per esempio, in vari momenti non è chiaro se Monica sia frontale o di spalle. Tutto questo lavoro ha una potenza detonatrice non indifferente, che speriamo contribuirà a un nuovo modo di vedere l’attore in scena e la sua nuova modalità performativa del corpo. 

 Patrizia Costa, Alessia Blum, Gaia Caruso e  Lisa Riva 


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica