Abbiamo avuto l’occasione di conversare con Luciano Rosso, poliedrico artista argentino che attraverso la tecnica del lipsync è riuscito a creare un universo poetico estremamente originale. Nel suo fondere i linguaggi del teatro, della danza, della clownerie e dell’arte drag, Rosso ha raggiunto una notorietà capace di travalicare i confini del teatro e raggiungere il mondo del web.

Il titolo del tuo spettacolo, Apocalipsync, unisce le parole “apocalisse” e “lipsync”. Da quale tipo di apocalisse nasce questo lavoro e in che modo riesce a generare speranza?

Dal mio punto di vista, Apocalipsync è un’ode alla creatività, uno sguardo nuovo e riconciliatorio verso il lockdown. Lo spettacolo è nato durante la pandemia da Covid-19, dalla necessità di creare qualcosa per non impazzire. L’opera parla della solitudine, ma soprattutto della creatività come strumento per combattere la noia; espone in modo divertente e dinamico ciò che l’essere umano nasconde quando nessuno lo guarda. La speranza emerge mettendo l’accento sul buon umore e sulla risata come motore dello spirito e, dunque, della performance.

In effetti, la parola “apocalisse” riporta al periodo in cui lo spettacolo è stato scritto. In che modo, allora, la pandemia ha agito sulla percezione del corpo, elemento centrale nel tuo spettacolo? La solitudine dell’isolamento è stata per te uno strumento di liberazione queer oppure ha gravato ancora di più sull’idea di normatività?

Nelle mie creazioni, parto sempre dal corpo: per me è l’asse centrale della rappresentazione proprio nel modo in cui racconto storie sul palcoscenico. Il fatto di essere rimasto chiuso in casa da solo per così tanto tempo ha accentuato il bisogno di raccontare il processo vissuto in quel periodo. Ma mi ha anche spinto a pormi molte domande di ordine esistenziale, in un tempo dilatato di grande introspezione. Vi è sicuramente una sorta di forma di liberazione queer nell’esplorare il corpo in modo più libero e istintivo, senza sguardi esterni. In ogni caso, tutte queste domande trovano realmente risposta nello spettacolo in modo comico e sincero.

Il tuo spettacolo mescola danza, mimo, lipsync, clownerie. C’è una volontà precisa di usare un linguaggio performativo queer, che vada oltre i canoni del teatro tradizionale?

È vero che le mie creazioni mescolano diverse discipline artistiche, ma il mio intento è senza dubbio quello di raggiungere il maggior numero di persone possibile, sollevare il morale in un momento globalmente difficile, contrastare un po’ la tristezza. Per riuscirci, non uso nessuna bandiera se non quella dell’amore, che è universale e comune a tutti. Cerco di allontanarmi da definizioni rigide per lasciare spazio a nuovi modi di creare e pensare. Il mio è un approccio molto viscerale, e questo supera le barriere del linguaggio.

Apocalipsync, foto di Maca De Noia

Nel radicare questo linguaggio poliedrico, hai messo in gioco anche forme linguistiche che tradizionalmente non vengono prese sul serio a teatro, come la clownerie. Quanto il non-essere-preso-sul-serio è importante per te? E quanto è importante che questo invito venga accolto da parte della comunità queer?

Il primo a non prendersi sul serio sono io! Non mi è mai importato di come gli altri mi vedano o percepiscano; non ho filtri quando si tratta di prendermi in giro e questo è anche una sorta di scudo protettivo. Perciò non mi offendo mai né tendo a vittimizzarmi. Considero la vita come un insieme di esperienze da cui imparare e cerco di prendere decisioni che mi arricchiscano senza disturbare o offendere nessuno. È una gioia per me che questo spettacolo venga accolto in contesti molto diversi, come festival di clown, circo, teatro, danza o, in questo caso, anche in questo bellissimo festival queer. In fondo, il clown vive nel paradosso, nella fragilità, e in questo c’è una forte affinità con l’esperienza queer.

Il lipsync è una pratica tipicamente drag: si finge di cantare muovendo la bocca in sincronia con una canzone, in genere di una grande diva o icona gay. Questa pratica implica un forte legame con l’alterità, nel parlare usando la voce di altri, e anche una certa dose di ironia. Per quale motivo il lipsync è un linguaggio tanto importante all’interno della comunità? 

Sono d’accordo con il fatto che la comunità gay abbia adottato il lipsync come forma di espressione, perché è divertente e allo stesso tempo creativo. Tuttavia, la sua origine è molto più profonda e antica. Il lipsync infatti è molto più di una trucco scenico, è anche uno strumento attoriale molto potente, se pensiamo ad alcuni riferimenti scenici storici come Jerry Lewis, per esempio. Per me è sempre stato un gioco naturale, qualcosa che facevo fin da bambino, anche prima di conoscere l’arte drag.

Questo lavoro, dall’isolamento della pandemia, ora sta girando moltissimo in tournée e sta incontrando diverse comunità. Come percepisci il tema dell’isolamento in questo mondo iperconnesso? Lo viviamo tutti, ovunque, nella stessa misura?

Credo che ci sia una tendenza globale a stare sempre iperconnessi: non concepiamo la vita senza uno schermo davanti alle nostre facce. La pandemia ce lo ha ricordato, rafforzando l’idea di una connessione totale, anche nel momento dell’isolamento. Gli schermi sono diventati il “fuori”, l’unico modo per uscire di casa quando non si poteva, senza uscire davvero, ma ci ha anche resi più consapevoli della distanza reale tra i corpi. Credo che oggi ci sia – e questo lo sento soprattutto in me – una forte tendenza a recuperare ciò che è essenziale, primordiale, rituale, in tutte le sue varianti. Questa è la mia premessa quando creo: usare il meno possibile, in una messa in scena minimalista, che inviti lo spettatore a essere un creatore attivo durante la rappresentazione. Insomma, tornare a stimolare l’immaginazione. In questo spettacolo non uso trucco, né parrucche, né tacchi, eppure il pubblico riesce a vederli grazie alla propria immaginazione. 

Nel tuo spettacolo, da solo, rappresenti diverse dualità: quella tra un personaggio e la sua psiche, tra l’attore e il suo corpo, tra l’uomo e la sua spiritualità. Cosa significa per te incarnare più ruoli nello stesso corpo?

C’è qualcosa che mi piace nel mettermi nei panni degli altri: è un ottimo modo per entrare in empatia. D’altra parte, impersonare tanti personaggi in così poco tempo (lo spettacolo dura circa un’ora) è una sfida sia come interprete sia come essere umano. Questo avviene perché durante la pandemia ho avuto bisogno di uscire da me stesso, abitare altri corpi, altre psichi. C’è una scena nello spettacolo che parla di doppiatori cinematografici che adoro, perché mi ha aiutato a uscire da me stesso, a sdoppiarmi per poter vedere le cose da un’altra prospettiva e trovare così un po’ di calma in mezzo a tanto caos. Quello che vedrete nella performance non è solo una sfida tecnica e emotiva ma anche un esercizio di empatia: mi piace l’idea che il mio corpo possa contenere molte storie, molte vite, e penso che questo risuoni con tante persone perché tutti, in fondo, siamo un po’ frammentati, un po’ in cerca di unità.

a cura di Gaia Barco e Andrea Piumino


immagine di copertina: Apocalipsync, foto di Maca De Noia

L’intervista fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Lecite Visioni 2025