di Danio Manfredini
visto al Franco Parenti di Milano_12-14 Dicembre 2012
La Sala Grande del Franco Parenti di Milano è stracolma, nonostante il Natale imminente: era atteso l’approdo del Principe Amleto di Danio Manfredini. Atteso perché, dopo Nekrosius, Timi ed Helitzka, ha chiuso la stagione 2012 del Progetto Amleto: un focus sul più riletto e rappresentato dei testi teatrali, pensato in sinergia con le scuole superiori milanesi e l’Università Statale. Ma un ritorno sulle scene di Manfredini è di per sé un evento da non perdere: le sue regie sono rare, sempre significative, frutto di una lunga e accurata ricerca.
Ed è proprio questo ciò che emerge fin dai primi istanti: in tempi di ‘studi’ realizzati appena in tempo per il cartellone di un festival e di eterni work in progress, la cura, il rigore, la profondità del lavoro si impongono con forza. Le maschere, segno distintivo di questo Amleto, sono una creazione dello stesso Manfredini; ma è l’intero linguaggio espressivo adottato, complesso e multiforme, a mostrare un’organicità raggiungibile solo attraverso un lungo e sudato labor limae. Ogni aspetto della messa in scena è parte strutturale della costruzione drammaturgica: i movimenti sghembi degli attori, le luci di Luigi Biondi, capaci di donare ai corpi la consistenza di una pennellata densa, i costumi che sembrano rimandare a un altro tempo, lontano e sospeso insieme.
Non stupisce trovare in Manfredini un intreccio insolubile di “pittura, danza, poesia” (così recitano le note di sala del Parenti). Stupisce di più, forse, la scelta del classico teatrale per eccellenza da parte di un artista abituato a scrivere e sperimentare in proprio. Ma presto ci si accorge che si tratta di un Amleto in totale soggettiva: il testo è scavato, svuotato, evocato per istantanee. L’intera vicenda è ripercorsa dal principe in punto di morte, come un sogno prima della lunga notte: le immagini gli si presentano parziali, non realistiche, senza pretesa di descrizione o di oggettività. I personaggi – maschere bianche stranianti e stralunate, penzolanti come manichini senza corpo – si alternano nella memoria come ipostasi lontane dagli esseri umani. In questo contesto ogni elemento sulla scena acquista una vigorosa valenza simbolica: il vestito da sposa di Ofelia, le cornici che paiono immortalare i protagonisti in una posa perenne e, su tutto, le croci che accompagnano le morti finali tessono una fitta rete di rimandi artistici, religiosi, antropologici.
La mente di Amleto è il palco stesso, buio, vuoto, squarciato dalle presenze e dai loro percorsi: in una delle scene più suggestive dello spettacolo il Principe resta immobile, mentre alcune figure in rosso attraversano la scena di corsa, sollevano un manto di coriandoli e li lasciano poi depositare in una nuova immobilità. Lo scalpiccio rapido dei passi, il rumore sottile della carta, il frusciare delle vesti vengono inesorabilmente assorbite dal silenzio.
Mentre si osserva ammirati il susseguirsi di immagini inquietanti e perfette, ci si rende conto con un po’ di imbarazzo che, implacabile, ha fatto capolino la noia. La stanchezza? La giornata? Il periodo dell’anno? Forse. E se invece il problema fosse sul palco?
Quelle voci alterate dall’apparato fonico della maschera, quel testo emesso senza intenzione naturalistica come si addice a una sequenza onirica, quel ritmo uniforme e senza accelerazioni proprio del ricordo, quella sospensione rarefatta che non viene mai meno per un’ora e quaranta non rendono certo facile la vita dello spettatore.
Ecco perché lo spettacolo sembra quasi richiamare certi esperimenti di Terzo Teatro di alcuni decenni fa: Manfredini offre uno scavo profondo e arduo che corre il rischio dell’autoreferenzialità. In tempi in cui i fruitori del teatro e della cultura rischiano di diventare specie in via d’estinzione non varrebbe la pena di provare a conciliare verticalità e orizzontalità?
Maddalena Giovannelli