di Harold Pinter
Regia Peter Stein
Visto al Piccolo Teatro Grassi _ 20 novembre – 1 dicembre 2013

Riabbracciare la famiglia. Croce e delizia di ogni figlio: porto sicuro contro i marosi del mondo, luogo dove per prime sfociano le violenze e le afflizioni parentali.
Due cariche opposte che gravitano intorno al medesimo nucleo, lo stesso che, in religione come in filosofia, in ricchezza, povertà e finché morte non vi separi, sta alla base del consorzio umano.

Peter Stein affronta Harold Pinter. Lo fa mettendo in scena Il ritorno a casa, spettacolo che, dopo il debutto di quest’estate al Festival dei Due Mondi di Spoleto, viene proposto al Piccolo Teatro Grassi per la prima milanese.
In realtà il ritorno di Teddy che, diventato professore di filosofia presso un’importante università americana, decide di far visita al padre, allo zio e ai due fratelli nel sobborgo natio di Londra per presentar loro la propria sposa, segna un ritorno anche per Stein.
E non solo per il dato biografico che lega Stein a Teddy nel comune destino di essere figli di un padre a tratti aggressivo e autoritario, ma soprattutto perché fu proprio questo lavoro di Pinter a tenere a battesimo il regista teutonico agli inizi della carriera. Era il lontano 1966 e Stein si occupò della drammaturgia della prima rappresentazione tedesca dell’opera alla Kammerspiele di Monaco.
E in effetti, una certa continuità con il teatro da camera la si può rilevare da subito osservando la fissità della scena: al centro di un salotto, luogo per eccellenza deputato alla rappresentanza e alla socialità familiare, troneggia minacciosa la poltrona del pater familias, monolite ineludibile del potere patriarcale. Basta un’occhiata per percepire l’immutabilità del luogo, la cui “struttura portante non è stata modificata” come fa notare Teddy alla consorte mostrandole la casa, presagendole così l’infrangibile ciclicità, sottesa alle dinamiche familiari, a cui sarà sottoposta. La donna, qui interpretata con fremente ambiguità da Arianna Scommegna, è infatti il motore, l’elemento estraneo, che innesca con la sua carica sessuale un carrilon familiare i cui meccanismi sono oliati di libido e desiderio di sopraffazione, attrazione e repulsione.

La regia di Stein, paralizzata a livello scenico dal desiderio di rispettare l’unità spaziale originale dell’opera, si condensa nella direzione degli attori, dando vita a un capolavoro di meticolosità. Ogni gesto è cesellato, ogni intonazione limata con tale precisione che si fatica a capire dove finisce la naturale inclinazione interpretativa dell’attore e iniziano le indicazioni del regista.  Il risultato è uno straordinario gioco al massacro in cui nulla è fuoriposto e in cui tutti gli attori (che meritano di essere menzionati integralmente: Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, e la già citata Scommegna), appaiono in stato di grazia tanto che le tre ore di spettacolo sembrano dimezzate sotto i colpi della loro bravura.
Stein racconta Pinter con amore, lo restituisce allo spettatore tributandogli gli onori del “classico”, conservandone intatta l’essenza, nella forma come nelle problematiche.

È  vero quanto afferma la filosofia hobbesiana, riferimento implicito dell’opera di Pinter, che col matrimonio si sancisce la famiglia ma anche la sottomissione della donna al potere maschile? Quale genere è destinato a comandare realmente, quale a soccombere? Stein non pone soluzioni (del resto in Pinter di soluzioni ce ne sono ben poche) ma non si tratta di un arrendersi al testo, al contrario, è la dimostrazione di una perfetta assimilazione. Per una volta, cosa che non sempre accade quando il teatro incontra l’autorialità di un grande regista, lo spettatore è libero di abbandonarsi completamente alla scena e di godersi lo spettacolo diventando, a suo modo, parte integrante del disegno generale, di quel mimetismo che, dosato con maestria, rende la realtà arte.

Corrado Rovida