Non finisce in un bagno di sangue, come le tragedie antiche, ma resta tutta in un asettico salotto borghese, questa tragedia 2.0. Eppure il sangue c’è, ed è… prima.
Il primo quadro scenico di Una vera tragedia, si intitola «DOPO», secondo la scritta proiettata sullo sfondo. Ma dopo cosa? Lo sapremo nei due quadri successivi: «PRIMA» e «ANCORA PRIMA». All’inizio lo spettatore è catapultato dentro una fastidiosa, strana atmosfera, generata da una serie di effetti fra buio, luci psichedeliche e il suono di un battito cardiaco ingigantito all’inverosimile. Il disagio non è causato soltanto da quest’atmosfera, ma anche dall’inesistente relazione fra i protagonisti in scena, Mater e Vater, pure loro identificati dalle didascalie proiettate sullo sfondo. Mater è in camicetta di seta con collo a volant e gonna a metà polpaccio.Vater è un padre dall’inflessione teutonica in completo da ufficio. Si muovono fra poltrone rosse e abat-jour come in un vuoto siderale.
I legami dei tre quadri, proposti in sequenza cronologica inversa, sono segnalati, oltre che dalla proiezione dei titoli, da alcune tracce drammaturgiche. Ad esempio Mater, in «DOPO», si ferisce una mano e la fasciatura l’accompagna nel quadro successivo, ovvero «PRIMA». Questa ‘storia al contrario’ ruota attorno all’attesa di un Figlio. Mater e Vater, attraverso un sorriso al silicone che costantemente riassestano, tentano di recuperare una normalità che non riescono a incarnare.
Un’incrinatura è percepibile inoltre fin dalle prime battute, proiettate sulla parete come il titolo del quadro. Ciò che effettivamente Mater fa e dice pian piano si discosta dal testo proiettato, che invece gli altri personaggi seguono alla lettera. Lo stesso personaggio materno esplicita questo conflitto con un urlo: «Non so cosa devo fare!». Vater invece continua a conversare del più e del meno, ma è spinto oltre il limite della sua stessa ipocrisia borghese e finisce per esplodere — prima di ritornare alla plastica del suo solito sorriso.
Il Figlio tanto atteso sembra comparire a metà del primo quadro. Le didascalie proiettate sullo sfondo chiamano in scena un Ragazzo, il quale mantiene le distanze dalla coppia parentale con freddezza calcolata. Impersonato da Alessandro Bandini, attore e co-regista dello spettacolo, è in jeans, scarpe da tennis e felpa. Sarà davvero lui il Figlio? No, non è lui. Lo spettatore rimane spiazzato dall’ennesima ambiguità proposta in Una vera tragedia. Infatti la genitorialità sembra riconoscere nel Ragazzo lo stesso Figlio.
Il Figlio “vero” compare, sempre identificato dalle didascalie, sostituendo il Ragazzo a metà del secondo quadro: ne assume addirittura la posizione in scena, accanto a una delle poltrone del salotto. Vater e Mater interpellano Figlio e Ragazzo come se fossero la stessa persona. Dei quattro personaggi, però, l’ultimo in ordine di apparizione è l’unico che abbia reazioni e movenze umane, vive, emotive: gli altri sembrano manichini ai quali lo sfondo della scena prescrive azioni e battute. Il Figlio, non a caso, non esce di scena quando l’invisibile regista-demiurgo che proietta le battute sullo sfondo glielo impone. Alla fine dello spettacolo, in «ANCORA PRIMA», questa umanità è negata, con il cadavere del Figlio immolato in un bagno di sangue. Chi sono i carnefici? Anche se tutti sanno che si tratta di Vater e Mater, il dispositivo scenico non vuole farcelo sapere. Perché? Cominciamo a capire che forse non è importante.
Siamo davanti a un simbolo, insomma, quasi una ferita originaria dell’essere umano. «È come un agnello», dice Riccardo Favaro, co-regista e drammaturgo di Una vera tragedia, quando lo incontriamo con Alessandro Bandini dopo lo spettacolo. Tuttavia questa riflessione non risulta così ideale e il pubblico esce di sala ancora sconvolto dalla pozza di sangue (finto, certo) di questo agnellino.
Nello spettacolo si ravvisano molti elementi viscerali, oscuri, ricchi di suspense: elementi tipici del genere horror. Ma allora quale differenza c’è fra tragico e horror? Riccardo Favaro risponde così: «L’horror è orizzontale, mentre nella tragedia, ad un certo punto la vicenda si impenna oltre questo asse.»
Come per la tragedia classica, anche la nostra Vera tragedia post-moderna finisce nel sangue: quest’ultimo però non arriva ‘dopo’, come conseguenza delle scelte del protagonista o del suo fato, bensì ‘prima’, anzi ‘ancora prima’, come un fardello che ci si porta dietro e di cui non si sa più riconoscere l’origine. Forse proprio per questo non siamo più capaci di raggiungere il “vero tragico”, né di toccare con mano l’impennata di cui parla Favaro: non ci resta che il sangue dell’horror.
Ida Soldini
Una vera tragedia
di: Riccardo Favaro
progetto e regia di: Alessandro Bandini, Riccardo Favaro
con lo sguardo esterno di: Carmelo Rifici
con (in ordine alfabetico): Alessandro Bandini, Flavio Capuzzo Dolcetta, Alfonso De Vreese, Marta Malvestiti
visto al LAC di Lugano in occasione del FIT Festival 2020_13-14 ottobre 2020
Contributo pubblicato nell’ambito del progetto: