23 ottobre. Arriva il giorno dell’intervista e arriva anche Roberto Latini. Devo aspettare un po’ prima di intervistarlo e, onestamente, non mi dispiace: mi permette di mettere in pausa la mia agitazione. Quando Latini è disponbile, pochi minuti dopo, decidiamo di sederci sul divano all’ingresso del Lavoratorio. Mi sento piccola, davanti a Roberto. Un paio di occhiali da sole fanno da schermo ai suoi occhi; lo guardo e d’impulso abbandono il mio quaderno, chiuso in mezzo a noi due, quasi a chiedergli, implicitamente, di essere indulgente con me. Allora mentre inizia la registrazione, allungo un po’  troppo la prima domanda e prendo il tempo per ricordarmi le parole più adatte.
«Allora, ti avviso che sono bravo, molto bravo, a non rispondere; quindi, quando ti sembrerà che non lo sto facendo chiaramente, sappi che è una capacità che ho», dice subito Roberto. Così comincia la nostra conversazione: dal nostro rapporto antitetico con le parole.

Per iniziare ti chiedo perché sei qui, al Lavoratorio, e cosa ti ha portato ad aprire, ieri, la programmazione teatrale di questo spazio.

Sono qui per rispondere a un invito: mi ha fatto piacere essere stato chiamato da Andrea Macaluso, per partecipare alla programmazione. Oltre a questo c’è una specifica da fare, che va oltre e che c’entra con quello che penso di luoghi come questo. Questi posti, dalle misure racchiuse e intime – e qui faccio un pensiero allargato anche ad altri spazi teatrali in cui sono stato e cresciuto – racchiudono e conservano una certa vicinanza fondamentale. È questa vicinanza minima col pubblico che aiuta, poi, in futuro, a saper gestire spazi con una platea ben più grande, dove bisogna imparare ad avere percezione della distanza. Ancora, qui, in un luogo come il Lavoratorio, si ha la possibilità di ritornare da dove abbiamo iniziato. Di conseguenza mi fa piacere, anzi, molto piacere che lo spazio sia così, che si crei questa vicinanza, questa condizione di condivisione. E questo vale nel bene e nel male: in contesti di questo tipo ci sono cose che, ovviamente, si possono fare in modo diverso, si possono mascherare, camuffare.

L’essenzialità del luogo porta a pensare a una richiesta di spazio, tu stesso riduci la tua azione a pochi movimenti…

Non tutto è propriamente riconducibile a delle vere e proprie decisioni. In questo lavoro, so solamente che voglio stare il più possibile in disequilibrio. A partire dalla respirazione, per arrivare all’articolazione, alla fonetica e a tutto ciò di cui lo spettacolo è composto, tutto deve essere necessario affinché le parole possano transitare attraverso di me. Sì, è vero, devo occupare poco spazio, il minor spazio possibile; ed essere mobile. Di conseguenza, anche gli oggetti che mi porto in scena – i microfoni, le aste – ogni tanto devono spostarsi perché c’è bisogno di far passare: c’è bisogno di fare spazio alle parole.

foto: ufficio stampa

In questo spazio molto piccolo, ristretto, si può dire che la parola non si disperde, anzi, si amplifica in funzione dello spazio. Pensi che la forza delle parole possa andare a perdersi se pronunciata in uno spazio più ampio?

Questo spettacolo, La delicatezza del poco e del niente, lo abbiamo fatto anche in contesti più ampi, sia dal punto di vista delle misure che, naturalmente, della distanza col pubblico. In quei casi è necessario avere un impianto adeguato all’ambiente sonoro. Per esempio, quest’estate abbiamo messo in scena lo spettacolo a Giardini Naxos, in Sicilia; quindi eravamo all’aperto, e con gli spettatori distanti. È quella una situazione in cui l’attenzione, l’essere con lo spettacolo, cambiano, perché gli spettatori sono più lontani dall’attore in scena, cioè da me, ma io sono comunque tenuto a renderli più vicini alle parole. Questo esercizio, onestamente, non mi dispiace.

Tornando alle parole, com’è nato il tuo legame con la poesia di Mariangela Gualtieri, e quindi l’idea di creare una performance a partire dai suoi testi? E che tipo di lavoro hai fatto sul testo poetico?

Conoscevo già Mariangela. In questo caso, le ho chiesto il permesso di utilizzare i suoi testi. Ricordo, infatti, che andai a casa sua, a Cesena, una sera: chiacchierammo un po’ e lei mi ha dato, per così dire, l’accesso a una serie di poesie, di raccolte. Da lì ho scelto come montare e unire i testi fra loro, nel modo che pensavo rispecchiasse al meglio la mia idea di spettacolo. Lei, infine, ha aggiunto il titolo. Quindi, la mia “colpa” sta nell’aver scelto con quale poesia iniziare, con quale finire, insomma, nell’averle unite insieme. Mariangela è stata molto accogliente e il pensiero di creare uno spettacolo a partire dai suoi testi è un modo, per me, di renderle omaggio. Per quel che riguarda poi i poeti, le poesie, di chi sono queste poesie e a chi sono destinate, il discorso sarebbe più ampio. Però, personalmente, tengo a non impararle a memoria: per me è molto importante che sia io stesso a leggerle, perché se le leggo sono quelle che sono, scritte, tali e quali a loro stesse; non quelle che io ho re-imparato. Cioè, se non le leggessi, non riuscirei a riconsegnarle nel modo in cui invece mi sembra di fare se le leggo.

Ieri sera, dopo aver visto lo spettacolo, non riuscivo a non pensare a come riesci a far sembrare naturale il lavoro sul corpo e sulla voce, e a legare perfettamente questo lavoro all’intimità della poesia. Sapresti dire come questo avviene?

È molto semplice! No, in realtà è molto complicato perché ci vuole chiarezza: anzi ci vuole l’esercizio della chiarezza. Io non penso di andare in scena in quanto “me”, non penso nemmeno che le persone siano venute a vedermi, o a vedere lo spettacolo, o a vedere e sentire Mariangela. Penso semplicemente che le persone siano venute a partecipare: le persone che arrivano a teatro partecipano a un’occasione, sia attraverso le parole di Mariangela, sia attraverso me – fisicamente presente. Nessuno di noi (ma nemmeno la musica o le luci) è davvero l’ospite: siamo tutti nella necessaria condizione di non disturbare. Si sente tutto. Forse con la poesia ancora si sente di più, ecco. Quando leggo le poesie di Mariangela Gualtieri, per esempio, accade qualcosa di diverso dagli altri spettacoli: in un certo senso, sono davanti a un ascolto aumentato della platea.

foto: ufficio stampa

Qual è stato il processo che vi ha portato a combinare musiche e versi? Sembrano nati insieme, dalla stessa partitura, come se fosse l’unico modo di poter sentire quei versi, e sembrano voler smuovere, insieme, le emozioni degli spettatori.

Il lavoro sulle musiche lo faccio assieme a Gianluca Misiti, che è un compositore col quale lavoro da molto tempo, dal 1994. Per quanto riguarda La delicatezza del poco e del niente non saprei spiegare nel dettaglio cosa è avvenuto o come, però mi piace che questo spettacolo non sia solo lettura. Nel momento in cui lavoro sui testi, io trovo che faccia la differenza il pensare dinamicamente: la dinamica è un concetto musicale e a me piace pensare a questo lavoro come a un concerto scenico. Ecco, forse questa è la definizione più vicina a ciò che realmente succede: un concerto scenico dove microfoni, livelli, volumi e avvicinamenti al testo e alla parola cambiano reciprocamente e dinamicamente, senza che siano fissati. Quanto allo smuovere, smuovono anche noi per primi, e non solo, come spero, gli spettatori. Ancora una volta, il pubblico è complice di ciò che avviene, non assiste a un’esecuzione ma partecipa a essa.

Cito Gualtieri: «pensiamo che il teatro sia proprio questo sporgersi sul presente e raccontarlo, come hanno fatto i classici con la propria lingua, cantarlo ai contemporanei». Quanto pensi sia necessario, adesso, questo sporgersi in avanti?

Se questa tua domanda significa “cosa ti piacerebbe fosse teatro?”, allora ti rispondo che il teatro non “è”, ma il teatro “siamo”: il teatro ci riguarda. Mi piace dire che ci riguarda perché vuol dire che ci guarda quando noi guardiamo lui. Inoltre, una serata come quella di ieri, in cui ritrovo questo tipo di partecipazione, mi fa pensare che gli spettatori hanno voglia di tornare a teatro, di tornare politici-poetici, che sono le due caratteristiche fondamentali per essere nella condizione di ascoltare l’azione.

a cura di Sofia Mauro


foto di copertina: Fabio Lovino

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica