Il teatro può essere terapeutico? Certo che sì, e ben prima della pandemia in corso: sin dall’antica Grecia, sua culla di nascita, il suo effetto ‘catartico’ è ipotizzato nella Poetica di Aristotele, e confermato da innumerevoli esempi. Non meraviglia dunque che già all’inizio del lockdown teatranti, artisti, spettatori, non potendo frequentare le sale, abbiano cercato rifugio in una scena non fisica ma virtuale, anzi ‘ideale’, creando nel corso del tempo uno spazio comune dove poter scrivere, provare e recitare ‘a distanza’, condividendo i frutti del proprio lavoro e potendo contare su un pubblico fedele di appassionati e sostenitori.

Non sono mancate però le voci di dissenso e di critica: il purista può sempre obiettare che la performance per essere tale deve avvenire rigorosamente dal vivo e in effetti da grecista e docente di teatro inauguro i miei corsi sottolineando questo aspetto e ricordando che per etimologia “teatro” è contenitore e contenuto – il “luogo da cui si guarda” e quel che ci avviene dentro – eppure per scopi didattici ricorro a spettacoli registrati, quando non è possibile vederli dal vivo, a maggior ragione in tempi di pandemia. Siamo tutti consapevoli che si tratta di un pallido surrogato, ma d’altra parte possiamo fare di necessità virtù: la situazione contingente ha messo a disposizione di un vasto pubblico tesori altrimenti inaccessibili, registrazioni preziose di spettacoli memorabili.

In questi lunghi mesi di astinenza forzata ho scandagliato la rete, e ho potuto vedere o rivedere molti capolavori (le splendide Coefore del 1999 dirette da Elio De Capitani e musicate da Giovanna Marini, trasmesse dal centro di cultura italiana di Parigi, Le Supplici di Moni Ovadia dal teatro greco di Siracusa, ad esempio): la tragedia greca in particolare, fedele alla sua missione originaria, mi ha aiutata a superare meglio i momenti più bui del lockdown, in attesa del sospirato ritorno in sala. Nulla di inaspettato peraltro: per noi come per gli antichi il teatro, in particolare tragico, conferma la sua capacità terapeutica sul piano privato e collettivo. Cura d’urto, antidoto, balsamo lenitivo, particolarmente indicato per superare traumi come quelli che ci hanno colpiti negli ultimi mesi. Poter dare un ultimo saluto ai propri cari, piangere al loro capezzale, poter vestire e vegliare il corpo, celebrare un funerale, ricoprire di terra la bara sono azioni rituali tese a superare il trauma della morte in ogni cultura, dall’antica Grecia fino a noi. Diritti finora ritenuti fondamentali e inalienabili, mai messi in discussione se non in momenti estremi come quelli che abbiamo vissuto.

In questo  — superare il trauma, elaborare il lutto — i Greci ci sono maestri, ma anche per un altro aspetto: gli eroi tragici si trovano innanzitutto ad affrontare una scelta difficile, se non insolubile, tra due mali inaccettabili e inevitabili. Soprattutto Sofocle spesso ritrae un individuo isolato rispetto alla collettività che ignora il proprio trauma, privato o familiare, o tenta di negarlo o nasconderlo, con effetti alla lunga devastanti: che si tratti di un uomo ferito, disabile, abbandonato dai suoi compagni (Filottete), tradito e spinto al suicidio (Aiace), di una donna che sfida la legge per seppellire suo fratello (Antigone), di una violenza privata che diviene contaminazione pubblica (Edipo).

Quest’ultimo, com’è noto, ha prestato lo spunto e il nome a innumerevoli studi e teorie, da Aristotele a Freud, fino a diventare paradigma, simbolo di ogni trauma immaginato, o vissuto o rimosso, che ci condiziona nostro malgrado: la paura di non essere amati dai nostri genitori, i nostri impulsi sessuali o violenti, i nostri desideri inconsci e inconfessabili; tutto ciò che in fondo si cela dentro di noi, ma fatichiamo ad ammettere e riconoscere. Eppure, come abbiamo ricordato di recente (La pandemia attraverso la mitologia, Radio IULM, 25 giugno 2020), Edipo è anche colui che, dopo aver scatenato inconsapevolmente un morbo mortale, cerca di curare i suoi concittadini.

Nel prologo dell’Edipo re sofocleo sembra risuonare l’eco della pandemia che devastò realmente Atene nel 430 a. C., descritta minuziosamente nelle Storie di Tucidide e molto probabilmente antecedente al dramma: nei primi versi Edipo è invocato come taumaturgo e guaritore, ma rassicura i Tebani (suoi “figli”, come li chiama significativamente) di aver intrapreso la ricerca di un antidoto. Non si tratta di un vaccino, come ci aspetteremmo oggi, bensì dell’oracolo di Apollo a Delfi: il responso del Dio farà accelerare il corso del destino, quella ‘macchina infernale’ (così Jean Cocteau intitola la sua riscrittura del dramma sofocleo) che ha segnato Edipo prima ancora della nascita. Una dopo l’altra, come le tessere del domino, tutte le certezze e le difese di Edipo e dei suoi compagni di sventura crollano, inghiottite nel baratro della conoscenza (com’è noto, l’infelice re scoprirà di aver ucciso suo padre e generato figli con sua madre, condannando se stesso e i suoi alla rovina).

Per uno scherzo del destino proprio Edipo Re ispira l’ultimo spettacolo che ho visto in scena prima del lockdown (Verso Tebe di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, Teatro Elfo Puccini, 21 febbraio 2020), ma anche l’ultimo che ho seguito in diretta streaming (il 3 settembre 2020) prima di tornare finalmente a frequentare il teatro dal vivo. Basta accostare i due spettacoli — o anche solo le fotografie, come in un confronto ‘all’americana’ — per rendersi conto di quanto siano distanti (tanto da sorprenderci, anche considerando quanto è successo in questi mesi), ma stranamente anche legati, al di là dell’abisso che li separa.

@Laila Pozzo

Il primo Edipo nasce da un gruppo teatrale che da sempre coinvolge fortemente il suo pubblico; in questo caso, per favorire la massima partecipazione e vicinanza tra spettatori e interpreti, i primi circondano i secondi e sono tutti giovanissimi (si tratta di una recita scolastica): siedono su gradinate appositamente costruite in sala, a delimitare lo spazio come in un teatro antico. Ai quattro lati dello spazio scenico, a brevissima distanza dal pubblico, Ferdinando Bruni e altri tre giovani attori interpretano un collage tra il testo sofocleo e le sue riscritture, dando vita a un emozionante concerto di voci. La loro presenza fisica, esaltata da luci, musiche, microfoni e amplificazione, produce una forte tensione e una partecipazione emotiva degli spettatori che garantisce, dopo lo spettacolo, un acceso dibattito in sala.

Questa stessa formula caratterizza anche The Oedipus Project: seppure trasmesso online, rientra di un progetto pluriennale, Theater of War, originariamente concepito e recitato dal vivo, basato sulla partecipazione diretta del pubblico alla messinscena, e al successivo dibattito che ne è parte integrante. Fondato nel 2009 da Bryan Dorries e Phyllis Kaufman, è un esempio eccellente delle potenzialità del teatro classico in ambito sociale, pedagogico, terapeutico (com’è anche Aquila theatre, un programma di educazione e integrazione attraverso il teatro attivo dal 1991, come ha di recente raccontato il suo fondatore Peter Meineck alla confraternita Phi Beta Cappa “Come il teatro greco rende i cittadini migliori”  – How Greek Theater Trains Better Citizens)Theater of War è nato da esperienze dirette nella cura di disturbi cronici e psichiatrici, ma si è via via concentrato su vittime di traumi individuali e collettivi, o di violenze legate alla guerra.

In particolare Doerries, direttore artistico dal 2016, ha messo in scena Aiace e Filottete in molte basi militari con veterani dell’Iraq, coinvolgendo anche le loro famiglie, e ottenendo riconoscimenti e finanziamenti anche dal Pentagono. Durante la pandemia il progetto ha dovuto rinunciare forzatamente alla performance live, ma non si è certo fermato. Anzi, ha tratto nuova ispirazione e motivazioni dagli evidenti parallelismi fra le tragedie greche e il presente: per esempio dedicando vari eventi a luoghi di cura negli USA, dove i malati e chi li assiste si sentono costantemente in bilico, come i protagonisti tragici (si veda il recente articolo del “New Yorker”, dal titolo significativo: La tragedia greca ci aiuterà a uscire dalla pandemia?)

The Oedipus Project – Frances Mc Dormand (7 maggio 2020 – versione USA)

The Oedipus Project – Oscar Isaacs (7 maggio 2020 – versione USA)

Il teatro è certamente terapeutico per Doerries e per i suoi seguaci, e a confermarlo sono non soltanto le centinaia di repliche live, ma da ultime quelle online (Antigone, Filottete, Eracle) cui partecipano anche attori molto noti al grande pubblico: nella prima americana di Edipo (7 maggio 2020) spicca il Premio Oscar Frances Mc Dormand (Giocasta), nella versione inglese (l’ultima in ordine di tempo, che ho visto su Zoom lo scorso 3 settembre) Damian Lewis interpreta Edipo. La scelta è azzeccata non solo per le ottime doti dell’interprete, ma in quanto il suo volto è noto ai più per una famosa serie tv, Homeland, dove interpreta un ruolo molto ambiguo: un soldato Usa tenuto a lungo prigioniero da terroristi islamici, poi liberato e rientrato in patria, ma sospettato di essere diventato un traditore. In questa vicenda possiamo cogliere echi, non necessariamente diretti, sia dell’Aiace di Sofocle sia dell’Edipo re: un uomo venuto dall’esterno si presenta prima come salvatore poi come buon sovrano, per poi scoprire di essere il peggiore dei figli di Tebe, condannato alla rovina.

The Oedipus Project (3 settembre 2020 – versione UK)

Come i precedenti spettacoli di Doerries, anche questo è seguito da un dibattito e introdotto dal regista che spiega l’intento del progetto: far risaltare nel testo tutti gli elementi che rendono la tragedia tristemente profetica, ma al tempo stesso rafforzarne la funzione terapeutica sulla base del transfert coi personaggi in scena. Attraverso di loro il trauma subìto nell’infanzia, o nel presente, non viene negato bensì rivissuto in un rituale drammatico collettivo. Veterani, vittime di violenza, familiari di morti suicidi o per Covid partecipano al dramma, rinnovano le proprie sofferenze interpretando o vedendo interpretare i ruoli tragici, seppure a distanza. Lo sperimentiamo di persona assistendo a quest’ultimo Edipo: sullo schermo del computer vediamo comparire i volti degli attori, singoli o in più finestre e i rispettivi ruoli scritti in didascalia (il “coro” è ridotto al solo corifeo). Sono tutti primi piani, alcuni su sfondo neutro, altri ritratti nel salotto di casa. Perfino in questa modalità, il testo emana tutta la sua inesorabile e spietata necessità: fuori dalla scena, gli attori appaiono soli, isolati, sospesi in un limbo. Tutti ci guardano direttamente, attraverso la videocamera, si rivolgono sussurrando o urlando a ciascuno di noi. L’eco delle loro parole è talmente potente che quasi ci sembra di essere a teatro. Quasi. Ma non è poco, di questi tempi.

Un’ultima riflessione: il confronto con le versioni di Edipo re viste dal vivo, e in particolare con Verso Tebe, ci fa rendere conto in un istante di quanto i mesi intercorsi, senza teatro, ci abbiano cambiati tutti. Anche come spettatori. La contaminazione tra performance live, video, nuove tecnologie da anni accomuna il teatro e altri media, e si fa sempre più forte. Ma la pandemia ha impresso un’accelerazione a questo processo, ha cambiato e stravolto le regole e ci ha fatto compiere un balzo in avanti, come sostiene anche Michela Murgia su “Repubblica” Lo Smart working spiegato da Rigoletto (6 agosto 2020).

Le modalità di percezione, fruizione, elaborazione – di uno spettacolo o della realtà – non possono più essere quelle di prima. Sarebbe meglio, quindi, cominciare a rivedere e ripensare anche il nostro modo di andare a teatro. Come? Dipende da ciascuno di noi, dall’intera comunità teatrale che d’ora in poi si ritroverà, speriamo, più forte, unita e assidua che mai nelle sale, nei chiostri, sui palcoscenici. Spettatori, registi, attori hanno attraversato un guado, e raggiunto un punto di non ritorno. Per evocare un’immagine classica siamo stati traghettati attraverso la pandemia: non da Caronte, verso la morte, bensì dal dio Dioniso, che rema al suo fianco in un’antica commedia greca. Nelle Rane di Aristofane il dio del teatro scende agli Inferi per ridare vita alla tragedia, e salvare la città stessa. Così, nel nome di Dioniso, vorremmo inaugurare la nuova stagione teatrale: una necessità, un’occasione di riscatto e di rinascita, per chi risale dagli Inferi verso la luce. La luce del proscenio.

Martina Treu

(In copertina un dettaglio dell’opera Edipo e la Sfinge di Giorgio De Chirico, 1968)