Il cinquantaduesimo ciclo di spettacoli classici che ogni anno riporta alla sua attività, per oltre un mese, il Teatro Greco di Siracusa si è chiuso con le ultime repliche nel fine settimana. L’Elettra con la regia di Gabriele Lavia e l’Alcesti diretta da Cesare Lievi hanno richiamato in tutto oltre 115.000 spettatori. Un numero che unisce scolaresche, turisti, siracusani, addetti ai lavori e studiosi, per i quali il festival dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico è ogni anno occasione per interrogarsi sulla rivisitazione del patrimonio classico.

I termini di questa rivisitazione toccano diversi aspetti, che vanno dalla traduzione alle scelte registiche, dall’interpretazione attorale al disegno delle scene. In gioco tanti fattori, come le specificità spaziali (e di pubblico), le dimensioni e il numero di spettatori. La necessità di produrre spettacoli “colti” e allo stesso tempo accessibili per la vasta platea (sono oltre 5.000 i posti da riempire per oltre un mese di repliche), l’estensione della cavea e il confronto vivo e diretto con gli spettatori portano a scelte registiche e scenografiche “amplificate”, nel tentativo di arrivare con efficacia al pubblico e di riempire la scena.
Proseguendo qui un ragionamento già avviato in occasione delle rappresentazioni del 2014 (“Stratagemmi” n. 29, pp. 103-124), torniamo a interrogarci sul ruolo e sul valore della configurazione dello spazio in un contesto come quello siracusano, continuando a considerare il significato della scenografia come “scrittura della scena”. Le specificità del teatro greco pongono problemi non molto diversi da quelli posti dal confronto con il testo classico: come coniugare il rispetto e la valorizzazione di un significato originale con le esigenze del teatro e del pubblico contemporanei? Come rendere l’antico uno spazio-tempo in grado di veicolare una narrazione capace di parlare all’oggi?

A confrontarsi con lo spazio del grande teatro open air sono stati chiamati nel corso degli anni scenografi come Luciano Damiani (1998), Emanuele Luzzati (1968, 1970, 1972, 2001), Margherita Palli (2002) e Maurizio Balò (2006, 2011, 2013), ma anche architetti come Jordi Garcés (2010), Massimiliano e Doriana Fuksas (2009) e Rem Koolhaas (2012). Un’analisi trasversale fa emergere il difficile e alterno equilibrio di una scenografia utilizzata come macchina scenica o accessorio visuale: talvolta parte integrante della scrittura scenica e delle scelte registiche, talvolta elemento simbolico (spesso scultoreo) quasi indipendente dall’azione e di per sé attrattivo per un pubblico trasversale.

Quest’anno la scelta degli scenografi ha seguito e assecondato quella dei registi, confermando collaborazioni ormai consolidate. Nella soluzione individuata da Alessandro Camera per l’Elettra, in dialogo con la regia di Gabriele Lavia, lo scenario tragico è un paesaggio post-apocalittico in cui la reggia degli Atridi è crollata. La scenografia ne rappresenta quello che resta, con un fondale composto da elementi verticali in equilibrio precario, attraversati trasversalmente da una scala che finisce nel vuoto. Una scala che non viene mai utilizzata dagli attori, se non in una rapida arrampicata di Elettra all’inizio dello spettacolo, faticando a diventare parte integrante della messa in scena: a metà tra elemento simbolico e dispositivo scenico, perde di valore e chiarezza.

È piuttosto nelle scenografie di Luigi Perego per l’Alcesti di Cesare Lievi che possiamo riconoscere il ruolo dello spazio e dei suoi elementi come dispositivi integranti della rappresentazione. Una semplice struttura a telaio a sette campate con una grande porta centrale dipinta di rosso raffigura il palazzo di Admeto e Alcesti, reinterpretando la skené di tradizione classica. Le sei campate laterali sono chiuse da tendaggi neri che – come veri e propri sipari – si alzano e si abbassano svelando quanto accade all’interno del palazzo. Ed è certamente nell’utilizzo di questi ambiti spaziali che risiede la principale chiave di interesse, e allo stesso tempo di allontanamento dall’antico: l’impianto scenografico sembra restare sospeso tra esterno e interno, tra dimensione pubblica e privata. Gli elementi verticali della struttura identificano diversi quadri, che si disvelano con una successione che può apparire di derivazione quasi cinematografica: non solo nella sequenza di scene come diversi frame di una pellicola, ma anche nell’introduzione di una profondità di campo. Al di là dei tendaggi appare, come in controscena, quello che accade nella dimensione privata della casa e la scenografia si fa dispositivo di moltiplicazione del registro narrativo. Si fa – come da suo significato – vera e propria scrittura scenica. Non manca d’altra parte l’elemento simbolico, qui rappresentato dai millequattrocento papaveri rossi – fiore della consolazione – piantati davanti al palazzo, come filtro tra il dentro e il fuori.
Se in parte questo impianto scenico esula dalla dimensione interno-esterno del dramma antico, allo stesso tempo, nella relazione con la parola, non la tradisce. Le azioni che vediamo accadere all’interno della casa sono infatti solo una proiezione di quanto viene concretamente raccontato dal messaggero all’esterno. Fino a quando, nel momento in cui la parabola drammatica sta volgendo al termine, crollano anche i tendaggi posti sul fondo del palazzo, che sembra sgretolarsi aprendosi sul paesaggio naturale e su un nuovo immaginario. Lo sguardo dello spettatore spazia oltre il quadro prospettico della scena e introduce un ulteriore elemento di allontanamento dal classico. E con esso uno spunto di riflessione su cosa possono rappresentare gli spettacoli di Siracusa: nella comprensione dell’antico, il superamento delle più rigide convenzioni della classicità. E anche la scena può essere fecondo terreno di sperimentazione.

Francesca Serrazanetti