Condizione lavorativa ed esistenziale che definisce un’intera generazione, la precarietà si impone come tema di riflessione anche per la scena. Come a dire che bisogna fermarsi, osservare, e provare a trasformare in racconto teatrale le riflessioni che sono al centro del dibattito politico e sociologico.
Non a caso, a farsi carico di questa inquietante fotografia generazionale sono gruppi giovani, che esperiscono sulla propria pelle contraddizioni e storture di quest’era di crisi: non è più tempo di finzioni e di intrattenimento, è tempo di riflettere sul presente e dunque su se stessi.
Si colloca in questo solco il bel lavoro di Deflorian/Tagliarini (Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, online la recensione), che ha guadagnato sul campo l’attenzione di pubblico e critica e che tocca con precisione chirurgica i punti più dolenti della nostra contemporaneità. Sotto i riflettori prendono forma sforzi quotidiani e angosce (“ma tra dieci anni cosa faccio?”), vero e proprio mantra dei trentenni di oggi: Monica Piseddu, nel suo efficace monologo, condivide con gli spettatori il dubbio di aver intrapreso la strada sbagliata (“Mi do due anni per vedere se va bene, mi ero detta. Ma poi non era chiaro se andava bene. Non è mai chiaro”) e confessa la “paura di non farcela, di non riuscire a stare al mondo”.
Si parla non a caso di ‘biocapitalismo’: il sistema economico entra nelle maglie del privato, i confini tra lavoro e tempo libero si confondono fino a sparire, le costanti incertezze ci mangiano la vita. Quali sono le conseguenze di questa trasformazione nei nostri affetti, sulla nostra personalità?
Ce lo racconta RIP, uno spettacolo della neonata compagnia Vioi Collectus, formata da Valentina Rho, Alessia Bedini e Matteo Barbè e nata dall’incontro dei tre attori durante un laboratorio residenziale condotto da Ricci/Forte. È stata interprete per il noto duo anche la regista del progetto Chiara Cicognani (a marzo la vedremo al Piccolo Teatro in Troia’s discount), ed è fondatrice della compagnia Korekané.
Protagonisti di RIP sono tre coinquilini di un appartamento dall’aspetto simbolico e anti-realistico: i muri sono inesistenti e le divisioni tra stanze sono segnate, à la Dogville, dallo scotch. Un letto, un tavolo, un water sono i punti fermi attorno a cui ruotano tre esistenze deragliate: Raian, Isa e Patti si amano, si tradiscono, si disperano, cercano sfogo in una sessualità inquieta, girano a vuoto senza trovare pace. La regia evita sapientemente il rischio di trasformare la vicenda in una fiction televisiva in salsa teatrale mettendo costantemente in luce la valenza metaforica dei personaggi, delle vicende, delle azioni. Non c’è spazio per il descrittivo: ai mobili e ai cassetti si sostituiscono scatoloni che ci parlano di instabilità e i pasti divengono scarne ritualità di tazze vuote e noccioline. Ogni gesto è trasposto, astratto, separato dal quotidiano. Ad allontanare il pericolo di una narrazione troppo schiacciata sulla piatta cronaca di un triangolo amoroso è poi l’assenza della parola, stratagemma che costringe gli interpreti a sperimentare vie anomale ma più universali per raccontare un disagio innanzitutto generazionale. Presi dall’angoscia, incapaci di relazioni umane stabili, privi di punti di riferimento, Raian, Isa e Patti ci mostrano gli effetti sull’individuo di una precarietà che da politico-sociale diventa esistenziale. Sullo sfondo, il bel video di Marco Monti ci riporta una Milano caotica, fredda e inospitale, che fagocita i tre trentenni senza offrire loro un possibile approdo.
Maddalena Giovannelli