Andrea Cerri è un giovane direttore artistico e organizzativo. È al timone dell’Associazione culturale Gli Scarti, attiva a La Spezia e riconosciuta dal ministero come impresa di produzione d’innovazione; da dieci anni, al fianco di Renato Bandoli e Michela Lucenti, anima la rassegna Fuori Luogo, dedicata ai linguaggi teatrali del contemporaneo. A Sarzana, a pochi chilometri da La Spezia, dirige lo storico teatro cittadino, cercando un equilibrio tra le aspettative degli abbonati e il desiderio di avvicinarli alle nuove voci della scena di oggi. Impegnato in produzione, programmazione, audience development, Cerri ha uno sguardo ad ampio raggio sulle carenze e le problematicità del sistema teatrale oggi. Conoscere e approfondire lo status quo è necessario, crediamo, per comprendere appieno le transizioni e la profonda crisi che il settore sta attraversando e dovrà affrontare.
Le situazioni di immobilità offrono, tra i pochi vantaggi, la possibilità di ragionare a freddo su cosa non funziona. Quali sono gli aspetti di maggior criticità oggi nel sistema teatrale italiano?
La situazione emergenziale determinata dal coronavirus ha messo e metterà sempre di più in luce le problematiche strutturali di cui soffre il sistema dello spettacolo dal vivo nel nostro paese. La prima questione, sotto gli occhi di tutti, è la sovrabbondanza di offerta di produzioni (da parte di compagnie, artisti e enti di produzione), a fronte di un’incapacità da parte del mercato di assorbirla anche solo parzialmente dal lato della domanda (teatri, festival, rassegne, e infine il pubblico).
Questa asimmetria è dovuta, a mio avviso, a diversi elementi concomitanti. A fronte della cronica scarsità di risorse, c’è un disequilibrio oggettivo tra i finanziamenti pubblici rivolti al lato della produzione di spettacoli (offerta) che assorbono percentualmente una quota maggioritaria dei contributi, rispetto a quelli destinati al lato della programmazione di spettacoli, festival e rassegne (domanda). E nel nostro paese, purtroppo, non c’è un pubblico così numeroso in grado di giustificare una produzione cosí sovrabbondante di spettacoli.
Gli operatori come reagiscono di fronte a questa situazione?
Vivono un’effettiva difficoltà a mantenere fidelizzato e numeroso il proprio pubblico pagante – peraltro sempre più anziano. Dovendo poi mantenere la sostenibilità anche economica del proprio teatro, spesso preferiscono andare sul sicuro, programmando produzioni e spettacoli con nomi televisivi, o titoli classici che possano rassicurare gli spettatori, convincerli a rinnovare anno dopo anno l’abbonamento a teatro e, contemporaneamente, avere i numeri necessari per poter continuare a godere dei contributi pubblici. Molti operatori programmano spettacoli prodotti da teatri con i quali possono scambiare le proprie produzioni, titoli che, altrimenti, avrebbero poche possibilità di essere messi in cartellone.
Ne consegue che ogni anno in Italia si producono centinaia di spettacoli, spesso sostenuti con contributi pubblici, o da bandi di varia natura, il cui arco di vita si esaurisce nella recita del debutto, e in alcuni casi neanche in quella.
Mentre ci sono una manciata di spettacoli che – spesso a prescindere dalla loro effettiva qualità – riempiono i cartelloni in maniera capillare di tutto il paese, generando “stagioni fotocopia” da Nord a Sud.
Parliamo dei più giovani. Quale situazione si trova davanti un artista o una compagnia under 35?
Lo scenario che si presenta a una compagnia o un artista under 35 che si affaccia sul mercato, a mio avviso, è caratterizzato da forti ambiguità: da un lato abbiamo una molteplicità di opportunità interessanti in termini di bandi, di progetti, di concorsi, di scuole o corsi di formazione riservati alla categoria under 35. Dall’altro le giovani compagnie trovano sempre meno spazio, a parte rarissime eccezioni, nelle produzioni, nei cartelloni e nelle programmazioni dei circuiti di enti teatrali, soprattutto quelli più istituzionali.
C’è quindi un problema di fondo che è quello, ricorrente, del ricambio generazionale a cui se ne aggiunge un altro, non meno determinante: a quei giovani artisti che riescono con un loro primo lavoro a farsi notare da operatori e critica, si richiedono conferme immediate. Iniziano allora le pressioni per produrre, subito dopo un lavoro ben riuscito, l’opera seconda (e terza e quarta), caricando le compagnie di aspettative e spingendole verso una bulimia creativa e produttiva che spesso finisce con l’affievolire la freschezza e la spontaneità artistica iniziale. Un atteggiamento che sempre più si traduce nel giudicare e valutare le realtà emergenti sulla base del singolo prodotto spettacolare, rispetto invece al loro potenziale percorso artistico-teatrale. Si tende cioè a favorire la nascita di fenomeni passeggeri, da consumare e bruciare nel giro di una o due stagioni teatrali, rispetto invece ad un investimento a lungo termine – certo più rischioso – sul percorso di un giovane artista o di una giovane compagnia.
Quali sono gli effetti di tutto questo?
La retorica dell’under 35 a mio avviso ha, da un certo punto di vista, avuto effetti positivi nel creare maggiori opportunità di entrata nel sistema, dall’altro ha ampliato alcune problematiche: in primo luogo ha incentivato e “drogato” startup e incubatori di nuove realtà – magari non ancora artisticamente mature – con l’illusione che l’essere giovani sia di per sé un valore, a prescindere dall’effettivo valore artistico. Così facendo più che favorire lo sviluppo o la scoperta di talenti artistici significativi, si è vista la nascita di una schiera di bravi giovani progettisti o project manager. In secondo luogo, ha confinato sempre di più in un recinto, appunto quello dell’under 35, i giovani artisti e compagnie, creando generazioni di eterne nuove promesse o eterni emergenti, con l’effetto di ritardarne ulteriormente l’ingresso nel circuito dei “grandi”.
Un ulteriore effetto collaterale è stato quello di penalizzare indirettamente gli artisti o le compagnie che si trovano anagraficamente in quella terra di mezzo: la generazione dei 40-50enni, considerati peraltro “giovani” da un sistema gerontocratico come quello italiano! Questi portano avanti percorsi di ricerca appartati e rigorosi, ma non rientrando nelle categorie protette, hanno a disposizione, paradossalmente, opportunità ancora inferiori a quelle degli under35.
Che ruolo ha avuto in questo quadro il Decreto Ministeriale 2014?
L’introduzione nel sistema FUS della categoria under 35 è stata una giusta e importante innovazione, perché poteva rappresentare finalmente lo sblocco di un apparato granitico e inscalfibile in corso da decenni. Negli obiettivi del D.M. veniva auspicato un rinnovamento del sistema e le compagnie under 35 dovevano essere l’avanguardia “armata” di questa innovazione. Il D.M. 2014 poteva generare, pur nella persistente scarsità di fondi, uno sconvolgimento o quanto meno un aggiornamento del sistema, in favore di queste realtà meritevoli, anche grazie all’introduzione di nuovi parametri e indicatori.
Nella realtà dei fatti, ci sono stati alcuni effetti positivi e di miglioramento, ma in generale la situazione è rimasta pressoché invariata. In particolare, un piccolo cavillo ha quasi del tutto eliminato l’effetto riformatore che poteva avere il D.M.: mi riferisco al cosiddetto “paracadute”. Questo consiste nel fatto che le realtà già finanziate negli anni precedenti (purché rispettino i parametri minimi della propria categoria) avevano garantito un finanziamento pari ad almeno il 70% della media dei contributi precedenti. In un contesto dove le risorse stanziate per il FUS non aumentano, e dove nuovi soggetti erano meritevoli di entrare, ciò si è tradotto nella riproposizione di un sistema statico e bloccato, con lievi scostamenti nell’attribuzione delle risorse.
Vuoi dire che per le imprese under35 non è cambiato nulla?
Da quel decreto, nel primo triennio, sono state assegnate risorse adeguate, che hanno contribuito alla fase di start-up di associazioni e compagnie. Il problema è stato che anno dopo anno, nonostante gli ottimi risultati in termini qualitativi e quantitativi di queste realtà (anche in relazione ad altre imprese molto più cospicuamente finanziate in altre categorie), nonostante la voglia di crescere ulteriormente e di investire, e nonostante gli aumenti dei parametri numerici minimi da rispettare (in termini di giornate lavorative e recitative), via via sono stati introdotti dei tetti agli aumenti percentuali del contributo, fino ad arrivare nel secondo triennio addirittura a un taglio significativo dei contributi. Grazie a un’azione collettiva di lobbying da parte degli ex under 35 e dei nuovi appartenenti alla categoria siamo riusciti quantomeno ad avere parzialmente reintegrato il taglio. Tuttavia il messaggio dal Ministero è stato forte e chiaro: «vi abbiamo fatto entrare nel sistema, ma non sarete voi l’avanguardia del suo rinnovamento, e il rinnovamento comunque sarà molto parziale». Un disincentivo dunque a investire e a crescere, un incentivo a rimanere statici nei propri numeri e nei propri parametri, perché chi farà di più, non sarà premiato comunque, ma anzi penalizzato.
Anche nel caso dei finanziamenti pubblici, quindi, la retorica dell’under35, rischia di essere un modo per dare una parvenza gattopardesca di rinnovamento di un sistema che nei suoi fondamentali rimane in realtà statico e autocentrato.
E allora cosa consiglieresti alle nuove leve del teatro?
Di curare e approfondire in primis l’oggetto artistico del proprio lavoro, che dev’essere sempre al centro e motore di tutto il resto, e di cercare, contemporaneamente, di avere anche una visione e una consapevolezza profonda di come funziona il sistema, storture comprese, senza che questi malfunzionamenti diventino facili “alibi”. Al contrario, il consiglio è quello di sviluppare uno spirito critico sufficientemente affilato per analizzare il contesto e mettere in campo delle possibili proposte, innescando così un effettivo cambiamento: credo infatti che avere da dire qualcosa di forte e nuovo a livello artistico rafforzi automaticamente anche la propria voce nelle rivendicazioni di tipo politico e organizzativo che riguardano i meccanismi e la “struttura di potere” del nostro settore. Solo in questo modo potremo fare rete e favorire un ricambio generazionale che non sia solamente di tipo anagrafico, ma portatore di un rinnovamento positivo e reale.
Maddalena Giovannelli
(foto copertina: Fabio Gianardi)