È una sera di fine agosto, quando con pochi amici menziono Monticchiello con la sua tradizione dell’autodramma, quella peculiare forma di creazione collettiva che a partire dagli anni Sessanta raccoglie intorno a un palcoscenico gli abitanti del borgo valdorciano. A cena stiamo confrontando i ricordi dell’estate, ripercorrendo le tappe che ci hanno condotto in teatri a lungo desiderati o scoperti per caso, per quelle fortuite coincidenze che gli itinerari di viaggio riescono, a volte, a determinare. Più che la vicenda de Il velo dello sposa — 58° autodramma del Teatro Povero, creato della gente di Monticchiello insieme a Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli — racconto tuttavia la conversazione avuta con un anziano signore in una piazza del borgo, là dove il pubblico si raccoglie prima che lo spettacolo abbia inizio; in piedi appoggiati ai muri che delimitano lo slargo, o già seduti ai tavoli della Taverna di Bronzone — gestita anch’essa dal Teatro Povero di Monticchiello — è infatti in Piazza Nuova che attendiamo il dipanarsi della trama, e insieme a essa il rivelarsi degli slanci e degli inciampi di un processo artistico democratico e plurale. Impiego qualche minuto prima di riconoscere il volto gioviale e pacifico dell’uomo — uno dei tanti che, anno dopo anno, abitano il palco di Monticchiello — e mi sorprende vederlo qui, tra la folla degli spettatori, a un quarto d’ora dal chi-è-di-scena. Condiviso qualche settimana più tardi, questo ingenuo stupore riceve in risposta un analogo entusiasmo: qualcun altro è stato nel borgo toscano pochi giorni prima, qualcun altro si è scoperto commosso nell’accorgersi di come, a servire piatti e bevande in taverna, fossero gli stessi uomini e le stesse donne che poco dopo avrebbero calcato le assi di Piazza della Commenda. A Monticchiello il tempo del teatro muta velocità e frequenza, si deforma, si dilata fino a incamerare il tempo della vita, il ritmo della quotidianità con i suoi rituali e le sue imprescindibili inezie: o forse è la vita che qui, da quasi sessant’anni, trova la propria melodia nel teatro?

foto: Klaus Schell

Anche gli autodrammi giocano col tempo: ne affastellano le vicende, lasciando che gli anni e le loro storie si confondano e sovrappongano, rivelando nella loro rapida successione — a sancirne il passaggio, solo una variazione nell’intensità delle luci — persistenze e oblii, corrispondenze tra antiche cause e imprevisti effetti. È stato così per Ultima chiamata, per Colòni, e lo è stato anche per Il velo della sposa: una spola mossa, ancora una volta, tra decenni lontani, per indagare ora l’età assiale della mezzadria e della guerra — l’epoca fondativa per la coscienza collettiva di Monticchiello — ora il fervore del boom economico, infine un domani in precario equilibrio tra distopia e sogno. Il dramma si apre con un casuale ritrovamento, l’immagine plastica di come le ferite del passato, e i rischi del futuro, si possano rivelare nell’ordinarietà degli oggetti e nella banalità delle relazioni che con essi stabiliamo: ecco che un velo di tulle, abbandonato da una sposa e raccolto da una bambina intraprendente e caparbia, diviene il tessuto sul quale disegnare una storia differente, imprevista, coraggiosa. Palmira — il cui nome è già, nel 1939 su cui inizia Il velo della sposa, promessa di ribellione ed eredità di dissenso — lo contempla, lo studia, quasi lo sottrae ai giochi d’infanzia delle altre bambine del paese, quei “facciamo finta che…” nei quali alle ragazze spettava di immaginarsi, sempre e soltanto, come mogli e madri. È invece una cerva il soggetto delle fantasticherie della bimba: i brillanti che adornano il velo sono gli occhi dell’animale, una bestia sulla cui fronte campeggia un diamante. Sono chimere, innocenti foleLumi e fole si intitolava lo spettacolo dell’inverno 2023/2024 del Teatro Povero di Monticchiello, quasi un’anteprima, per temi e atmosfere, dell’autodramma estivo — quelle che Palmira regala a sé stessa e alle amiche, sono prodigiose avventure come quelle di Portos e Aramis, che Palmira legge ogni sera insieme al padre Giacco. Ecco che nel rilievo distratto conferito a un libro, menzionato nel corso di una giornata comune e irripetibile, Il velo della sposa sembra invece citare Una giornata particolare, come quella in cui Antonietta/Sophia Loren inizia a leggere, con dignità e fatica, proprio I tre moschettieri: analoghe, qui e nel capolavoro di Ettore Scola, sono le possibilità che la cultura, la lettura, le parole — quelle parole che Palmira ancora bambina disegna con ampi gesti nell’aria, e che vediamo apparire sui pannelli traslucidi disposti sul palco — possano delineare una strada differente da quella che la vita del borgo, durante la Guerra, sembrava imporre a tanti, e soprattutto a tante. E tuttavia la follia fascista pretende, anche a Monticchiello, un compenso in esistenze e vite, e il sangue di Giacco — «offerto gloriosamente» durante la guerra d’Albania, così come comunicato alla famiglia, con tronfia retorica patriottica, da un telegramma del Regio Esercito Italiano — macchia indelebilmente il destino di Palmira. Vuoti lemmi di burocratica freddezza condannano la bambina ad abbandonare il borgo, a trovare servizio presso un’anziana signora di Colle Val d’Elsa, ma soprattutto sovrascrivono all’amore per le lettere lo spettro che in esse si possano celare grumi di dolore.

foto: Emiliano Migliorucci

Qui, negli intimi contrasti che il valore della cultura sembra potere originare, Il velo della sposa trova la sua cifra più felice, che emerge con chiarezza nel secondo quadro temporale della pièce. Palmira, ormai adulta, insegna in una scuola popolare, all’inizio di quegli anni Sessanta in cui la consimile esperienza di Don Milani, a San Donato di Calenzano prima e a Barbiana poi, infiammava le coscienze e metteva in discussione interi paradigmi pedagogici: eppure, al di sotto delle piccole gioie e delle ironie del gruppo di studenti e studentesse di Monticchiello, emerge sottile un ambiguo senso di estraneità, il dolore dello strappo dall’alveo sicuro dalla propria identità. «So’ ignorante, ma so’ io, no un altro! Scrive’, legge’, anda’ a scuola ‘unn’è robba per me!», si lamenta Gino, opponendo la propria verità contadina alla sicumera con cui Palmira cerca di migliorare il mondo circostante. È però Tonio, il fratello di Palmira, ad accusarla apertamente di arroganza e presunzione: lui, che alla morte di Giacco ha scelto una strada di «sudore, fatica e sangue», accusa Palmira di vivere «tra le nuvole, ’n mezzo le pagine de’ libri», mentre a Monticchiello si può solo sopravvivere. E forse, tentare di cambiare il destino diventando drammaticamente simili ai padroni.

foto: Emiliano Migliorucci

Il velo della sposa sceglie così di attraversare le vicende di un microcosmo familiare, nel quale intravedere però i dissidi della società italiana tutta, quell’intrico di pulsioni che a partire dagli anni Sessanta la imbrigliarono tra sviluppo e rivalsa, tra crescita culturale e diffidenza verso le élite, tra ribellione e acquiescenza al potere. La Storia, con i suoi momenti epocali, è forse più distante rispetto a Ultima chiamata o a Colòni, le cui drammaturgie disegnavano ancora sul palco di Monticchiello le ombre gettate dai fatti d’Ungheria o dal primo allunaggio: adesso — con una cifra scenograficamente ben più intimista e raccolta, e che affida a poche apparizioni dietro i velatini il compito di spezzare un incedere drammaturgico e registico tradizionale — sono i grandi, e lenti, cambiamenti socioculturali a essere esplorati, nel tentativo di registrarne le conseguenze sulla vita del piccolo borgo toscano. Nel presente in cui si chiude l’autodramma, un bieco rampantismo ha soppiantato qualsiasi velleità di cambiamento sociale, spegnendo le scintille che Palmira — e decenni di educazione democratica, di scuola pubblica, di promozione della cultura — aveva acceso e protetto. E Monticchiello, da tesoro da valorizzare e proteggere, diventa così nell’immaginazione dell’autodramma la grottesca meta di un turismo volgare, una tappa tra le tante nei viaggi di stranieri facoltosi e inconsapevoli — ma anche la preda di chi, tra i suoi cittadini, ha riconosciuto un’occasione di facile arricchimento. Certo, i segreti di una famiglia nascondono impervie verità, e quella stessa ricchezza può forse essere esito di una misconosciuta generosità piuttosto che di intuito e spregiudicatezza: ma quel germe di vile ignoranza, di sciatta adesione a un modello sociale che vede nel successo l’unico destino sensato, sembra ormai essersi incistato nelle relazioni tra padri e figlie, tra fratelli e sorelle, tra cittadini. Tra gli applausi, piazza della Commenda si svuota, e le conversazioni, le risate, gli scambi di impressioni e dubbi si spostano in piazza Nuova: a un tavolo della Taverna di Bronzone, spero che il mio timore possa essere smentito, e descritto come un’ingenua fola.

Alessandro Iachino


in copertina: foto di Emiliano Migliorucci

IL VELO DELLA SPOSA
autodramma della gente di Monticchiello
in scena a Monticchiello, in piazza della Commenda, dal 27 luglio al 14 agosto 2024