di Rolf Hochhuth
adattamento e regia di Rosario Tedesco
visto all’Elfo Puccini di Milano_18-28 febbraio 2016
Lo studio-abitazione di Rolf Hochhuth a Berlino si affaccia sul Memoriale, il monumento alla Shoah a pochi passi dalla porta di Brandeburgo: dalle ampie vetrate di un palazzo tipico dell’architettura socialista, nella sua stanza di lavoro, lo scrittore si è obbligato a guardare costantemente le grigie, labirintiche, steli diseguali di cemento, enigmatico simbolo architettonico che dà concretezza allo sgomento nel ripensare il passato tedesco ed europeo. Hochhuth, nato nel 1931, appartiene alla generazione dei ‘figli della guerra’ (Kriegskinder), che ha chiesto per tutta la vita ragione ai padri delle loro colpe; una generazione che si è trovata a scegliere tra la panacea dell’oblio e l’ossessione edipica del ricordo e della conoscenza. Un fatto biografico a lui vicino ha inoltre condizionato la sua giovinezza e la sua scrittura, un trauma non suo, ma della ragazza amata nell’adolescenza, la cui madre fu portata via dalla Gestapo sotto i suoi occhi bambini: la donna fu ghigliottinata il 5 agosto 1944 nel carcere berlinese sul Plötzensee, luogo deputato alle esecuzioni degli oppositori politici. Dalla vicenda Hochhuth trasse un racconto, L’Antigone di Berlino, la cosa migliore – secondo George Steiner – che abbia scritto, ingiustamente sconosciuto in Italia (si veda S. Fornaro, L’ora di Antigone dal nazismo agli ‘anni di piombo’, 2012 e l’approfondimento dedicato alla resistenza delle donne berlinesi su ContattoRadio). Ma trasse soprattutto le questioni guida della sua poetica: perché pochissimi si ribellarono? Perché la maggioranza tacque e si uniformò al terrore? Perché il male assoluto si sposa così bene col perbenismo borghese e con la mediocrità? E la Chiesa? Che ruolo svolse?
Quando era ancora un ambizioso e inquieto lettore di una grande casa editrice, Hochhuth compì nel 1957 con la prima moglie, la figlia dell’‘Antigone di Berlino’, che parla italiano e vive oggi in Svizzera, un viaggio a Roma, soggiornando ad un passo del Vaticano, nella spasmodica ricerca di documenti del silenzio del Papa davanti alla questione ebraica. Hochhuth non è uno storico, ma aveva un’ottima formazione di archivista, e pur non avendo ovviamente accesso agli archivi vaticani, raccolse tuttavia molti documenti; volle inoltre annusare l’aria del potere ecclesiastico, passeggiare per il ghetto romano, quindi trasformare il disagio provato e il materiale raccolto in prosa lirica da portare sul palcoscenico: ‘teatro documentario’ si definisce infatti una corrente del teatro tedesco dell’epoca, che teoricamente si riconduce a Schiller, alla sua idea del dramma storico come istituzione morale e politica, in cui verità e finzione si mescolano per rappresentare l’ideale. L’esempio più alto di quella stagione del teatro tedesco resta l’Istruttoria (1965) di Peter Weiss, il dramma su Auschwitz ricavato dalle testimonianze delle vittime nel processo tenuto a Gerusalemme ad Adolf Eichmann, il responsabile burocratico della ‘soluzione finale’. Nell’Istruttoria di Weiss, però, la testimonianza viene epurata di nomi e di ogni riferimento concreto: sul modello della Divina Commedia, il dramma diventa un resoconto metaforico dell’inferno, in cui persino la parola ‘ebreo’ scompare.
Al contrario Il Vicario consiste in una puntigliosa raccolta di nomi, date, fatti: lo scrupolo documentario rende Il Vicario (Der Stellvertreter ) perciò un dramma ipertrofico, fornito a stampa di una corposa appendice di Delucidazioni storiche. Scritto alla fine degli anni ’50, per qualche anno invano l’autore tentò di farlo rappresentare. Sino a quando il celebre Erwin Piscator, appena tornato nella sua Berlino dall’America dov’era caduto in sospetto di essere un sovversivo, nominato sovrintendente della Freie Volksbühne (oggi Theater am Kurfürstendamm), nel cuore della parte occidentale, lo lesse, lo tagliò di oltre un terzo, lo mise in scena il 20 febbraio 1963: suscitò così uno degli scandali letterari più violenti del tempo.
Sin dal titolo, il dramma fu inteso come un attacco all’autorità e alla sacralità del Papa (sul soglio sedeva intanto Giovanni XXIII); scoppiarono manifestazioni di protesta da parte di integralisti cattolici in Germania, Austria, Svizzera; facinorosi irruppero in teatro a Parigi (dove la regia fu firmata da Peter Brook), si scrissero pamphlets d’accusa e di difesa dell’opera, si arrivò a scontri di piazza. In Italia la polizia presidiò la ‘prima’ di Carlo Cecchi e Gian Maria Volonté nel mitico teatro romano di via Belsiana; poi il testo fu censurato, il traduttore (Ippolito Pizzetti) scomunicato, infine l’opera apparve a stampa nel 1964 con una meditata introduzione del cattolico Carlo Bo, che ne universalizza a ragione il significato. Lo scandalo diede fama e visibilità ad Hochhuth e il Vicario ha venduto da allora oltre un milione di copie. L’autore ha poi continuato instancabile la sua attività di polemista, alla ricerca spesso del sensazionale, ad esempio denunciando magistrati attivi nella RFT che erano stati compromessi col nazismo, accusando di connivenze Wiston Churchill e l’industria farmaceutica, riportando alla memoria Georg Elsner, il primo che attentò – fallendo – alla vita di Hitler in una birreria monacense, in numerosissimi drammi, romanzi, liriche, saggi e interventi; ma non ha più ottenuto lo stesso successo di pubblico e strepito di critica.
Il caso del Vicario va dunque compreso nella lunga stagione di plumbeo silenzio sul passato nazista che soffocò la memoria tedesca durante gli anni della ‘guerra fredda’: parlare di Auschwitz, all’epoca, era proibito, e non solo in teatro, e non solo per l’impossibilità di esprimere l’indicibile di adorniana memoria: ma perché era politicamente scomodo. Hochhuth ebbe coraggio di farlo. Oggi, dopo ‘l’era del testimone’ (A. Wierviorka) e in un età di spettacolarizzazione della Shoah, il dramma ha perso molto della sua scandalosa dirompenza; così come finisce per accrescere l’innumerevole schiera di film sull’argomento il tardivo Amen (2002) di Costantin Costa-Gavras, che sul Vicario si basa (in tedesco porta lo stesso titolo). Nel frattempo la ricchezza del lavoro storico sul ‘papa di Hitler’ non ammette più semplificazioni, anche se il dramma di Hochhuth torna sempre d’attualità nel momento in cui si riprende il processo di santificazione di Pio XII. Ma il Vicario è un pezzo di teatro, non un trattato di storia: e la struttura drammatica basata sui destini paralleli dell’ufficiale delle SS Kurt Gerstein (1905-1945), che si adoperò per un pronunciamento papale contro la deportazione ebraica, e del fittizio Riccardo Fontana, prete cattolico che sceglie di morire ad Auschwitz, regge ancora bene la prova del palcoscenico. Il Vicario, la cui traduzione italiana da tempo non è in commercio, rappresenta inoltre ancora un testo di riferimento non solo per chi ha memoria storica, ma soprattutto per chi cronologicamente non può averne, per i ragazzi, insomma, che da questo dramma traggono non solo consapevolezze sul passato, ma anche spunti di riflessione sul presente.
Assistendo alla sentita lettura scenica dell’adattamento di Rosario Tedesco, il pensiero non va solo, come dev’essere, alle vittime della Shoah, non va solo ai silenzi e alle connivenze del tempo, certo non esclusivamente di parte tedesca, ma anche ai silenzi di oggi, ai troppo generici proclami di solidarietà verso un’umanità sofferente perseguitata, deportata, torturata, che ci è vicina, vicinissima, davanti alla quale chiudiamo gli occhi o manifestiamo pietà di maniera – ma dalla quale ci sentiamo anche assediati. E in questo seppure inconscio richiamo all’attualità il teatro documentario di Hochhuth amplifica il suo valore di ‘istituzione morale’. Perciò particolarmente indovinata appare l’idea di Tedesco di proporre a suggello finale dello spettacolo il monologo di una ragazza ebrea di Ostia deportata, che dà con struggente semplicità l’addio alla vita, alle sue gioie, al suo amore (nel testo si trova nel V atto): una voce che sentimentalmente incide più di mille altri documenti, recitata ogni sera da un ospite diverso (io ho assistito alla lettura anche simbolica di Moni Ovadia), e riporta con forza al senso della messa in scena. Quello che il dramma voleva e vuole dire, infatti, e per cui val ancora la pena rappresentarlo quasi sessant’anni dopo la scrittura, è che ognuno porta la responsabilità delle proprie azioni, che sta a ciascuno di noi scegliere per la morale contro il potere, al di là delle ‘divise’ che indossiamo (a questo allude il sottotitolo dello spettacolo – Due divise, due uomini – che nell’originale è invece Un dramma cristiano). Grazie dunque a Rosario Tedesco; agli interpreti Matteo Caccia, Marco Foschi, Nicola Bortolotti, Giuseppe Lanino, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò, Rosario Tedesco, forse a tratti fin troppo emotivamente coinvolti nella lettura; all’Elfo Puccini per averci obbligato a un esercizio di memoria, senza retorica e senza celebrazioni. Grazie soprattutto per averci obbligato, ed obbligarci ancora e sempre, attraverso testi di teatro ormai distanti che il tempo ha spesso fagocitato, a spalancare gli occhi sul presente.
Sotera Fornaro