Mario Cervio Gualersi_direttore artistico di lecite/visioni.
Riccardo Olivier_coreografo e danzatore di iLove
Cesare Benedetti_coreografo e danzatore di iLove
Nicola Fogazzi_redattore A critic mess!

NICOLA. ILove è nato mentre eravate una coppia e racconta la vostra relazione; la rottura e l’evoluzione dei vostri rapporti come ha interagito con la performance? Com’è portarlo in giro oggi?

RICCARDO. In un certo senso io e Cesare siamo ancora una coppia: lavoriamo insieme, litighiamo… molto di quello che è in scena è ancora vivo. Tutte le volte che facciamo lo spettacolo fra me e lui si crea tensione: Cesare non mi sopporta.

N. Confermi?

CESARE. Certo! Il pezzo è cominciato per caso: ci hanno commissionato un pezzo di 20 minuti per un festival a Brescia. Avevamo appena finito la Paolo Grassi e non avevamo mai lavorato insieme. Ci siamo detti “facciamolo su di noi, su quello che siamo ora: una coppia” e “perché non un pezzo pop: un pezzo d’amore”. Ci siamo ispirati alla dinamica del teatro-canzone, in cui chi è in scena canta quello che gli sta succedendo. Abbiamo preso delle canzoni che raccontassero con le loro parole gli avvenimenti in scena, mentre noi con la danza ne raccontavamo l’aspetto interiore.

R. In realtà abbiamo usato la playlist di viaggio che ascoltavamo in macchina andando in tournée.

C. è proprio da lì che abbiamo dato il nome allo spettacolo: io avevo un iPod che si chiamava iLove.

R. Era una persona molto tenera un tempo.

C. No, è che amavo la tecnologia più delle persone! Abbiamo provato con le canzoni della playlist. Alcune sono state utili soltanto per le prove, altre le abbiamo tenute e sono diventate la colonna sonora della performance. Dopo il festival, avremmo voluto svilupparlo oltre i 20 minuti, solo che a quel punto non eravamo più una coppia; così abbiamo costruito la seconda parte, che racconta la separazione. È stata un’impresa catartica, perché abbiamo avuto la fortuna di poter portare la nostra esperienza fuori da noi, condividerla e osservarla con un sano distacco. Continuare a lavorarci dopo anni è interessante: oggi che siamo più lontani da quelle emozioni e dai movimenti che ne sono scaturiti abbiamo potuto concentrarci sui dettagli scenici, sulla ‘confezione’ dello spettacolo.

R. Sì, gli anni ci hanno aiutato a cristallizzarlo e a renderlo più fruibile. Le luci ad esempio sono nate nel corso delle repliche. Per una rappresentazione in una palestra a Bastardo, in Umbria, abbiamo inserito in una scena dei fari di taglio che proiettavano sulle pareti le ombre di due giganti fra le spalliere: l’effetto era mozzafiato, ed è entrato a far parte della struttura del pezzo. In altre sequenze le nostre ombre ci sdoppiamo in più coppie che danzano attorno a noi. In questo modo appariamo una coppia normale fra tante.

MARIO. La semplicità con cui raccontate una storia d’amore che potrebbe essere quella di ognuno di noi è l’elemento che più mi ha conquistato.

C. La performance ha più di sessanta date alle spalle, che per noi e per la danza è una rarità. L’abbiamo portato in Russia, nelle campagne francesi, al Fringe di Edimburgo, appunto in Umbria. Ha avuto modo di incontrare tutti i tipo di pubblico: non ha nessun gradino di fruibilità. Non è un pezzo da festival, che porti avanti un discorso formale, linguaggi nuovi e di avanguardia: semplicemente volevamo raccontare una storia d’amore. Abbiamo cercato di incontrare un pubblico che tendenzialmente resta escluso dai lavori che facciamo con Fattoria Vittadini, e che forse si sente inadatto alla danza in generale, perché pensa di non poterla “capire”.

R. Secondo noi uno dei punti deboli della danza è che è elitaria è autoreferenziale, ma non per scelta: è raramente inserita nei cartelloni dei teatri e rimane inchiodata sempre agli stessi circuiti, incontra sempre lo stesso pubblico, che spesso fa danza a sua volta o è comunque composto da addetti ai lavori. È un circolo vizioso.

N. Dunque non dev’essere un caso se lo spettacolo è accolto in un festival come lecite/visioni, tradizionalmente dedicato alla prosa. Come ci è arrivato?

M. La storia del nostro incontro è travagliata. Riccardo mi contattò fin dalla nostra seconda edizione perché era convinto che questo pezzo fosse adatto alla rassegna. Io guardai il video della performance, la trovai molto interessante, ma nutrivo dei dubbi proprio perché il festival era pensato per la drammaturgia, e perché io conoscevo la danza soltanto da spettatore e non da giornalista e critico.

R. Sì, capitai qui per sbaglio e mi appassionai, vidi quasi tutti gli spettacoli e tornai gli anni successivi. Mario – bisogna dirlo, con gentilezza rara nel mondo dello spettacolo – ha sempre resistito ai miei assalti. Quest’anno, in occasione della personale di Fattoria Vittadini, sono tornato alla carica e lui ha finalmente ceduto! Ne è nato un bellissimo incontro.

M. Quest’anno è stata un’edizione di svolta per noi, ci siamo aperti agli autori stranieri, e, con iLove, alla danza. Riccardo aveva ragione: lo spettacolo non solo era adatto al festival, ma si è rivelato un fondamentale stimolo di crescita. La semplicità del linguaggio che porta in scena, la fruibilità di cui abbiamo parlato sono state evidentemente il giusto anello mancante che mi ha persuaso ad azzardare quel passo in avanti per cui esitavo.

N. Parliamo del finocchio.

R. Ma come si permette? Si vergogni! No, scherzi a parte… Provavamo in una sala che si trova sotto un supermercato, così fra una prova e l’altra andavamo a fare la spesa. Finché un giorno ci siamo imbattuti in un finocchio. Siamo rimasti rapiti dalla sua forza simbolica: sembrava un cuore (l’organo), e se lo sbucci ti porta a una tenera intimità, come noi in scena ci togliamo i vestiti quotidiani e sotto abbiamo le tutine un po’ finocchie, e poi ancora la pelle nuda.

C. E se lo mordi: diventa la mela di Adamo ed Eva – ma in versione “Adamo e Peter”: il nostro frutto del peccato.

M. Il momento al culmine del processo di seduzione in cui mordete fragorosamente il finocchio accanto al microfono è molto suggestivo: riuscite a essere scoperti e seducenti senza essere volgari.

R. In realtà lo spettacolo, come tutto il pop, è disseminato di allusioni volgarotte: la regola del genere è che puoi dire tutto purché sia sempre fatto con leggerezza e con una certa frivolezza.

C. Proprio come Madonna in Like a Virgin. Anche quando prendiamo gli applausi ed esibiamo la nostra felicità con un balletto gaio e Jovanotti in sottofondo ci stiamo crogiolando nel pop: è un omaggio al genere, ma anche un modo per affrontare un’esperienza intensa per noi e probabilmente anche per il pubblico senza pesantezza e sempre con autoironia.

a cura di Nicola Fogazzi

iLove
di e con Cesare Benedetti e Riccardo Olivier.
Visto il 26 ottobre 2017_Teatro Filodrammatici in occasione del festival lecite/visioni.